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Waiting for «A Torino con il Sud». Tra Stato e Mercato. Una conversazione sul bene comune con Andrea Olivero, Presidente del Forum del Terzo Settore

  • Pubblicato il: 14/09/2012 - 11:09
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Catterina Seia
Andrea Olivero

Nel periodo di transizione e di grandi stravolgimenti sociali che viviamo, tra modelli che declinano e nuove prospettive all’orizzonte, ci si interroga su quali basi ripartire per uno sviluppo del Paese.   Se lo Stato da solo non basta, il Terzo Settore, come ha dimostrato ampiamente, è destinato ad assumere rilevanza  crescente. Con i suoi 3.200.000 volontari, circa 400.000 organizzazioni, con un grande cambiamento culturale, mette  le «carte in regola» per rispondere alle esigenze del Paese ed essere parte integrante e «generativa» di un processo di innovazione sociale.  Andrea Olivero, Presidente del Forum nazionale del Terzo Settore, il principale meccanismo di rappresentanza che riunisce circa 94.000 organizzazioni,  ci racconta storia ed evoluzione di un mondo ancora troppo poco compreso.  Lo incontreremo alla Piazza dei Mestieri a Torino, luogo simbolo dell'azione di inclusione sociale dei giovani  in difficoltà, attraverso l'educazione e le professioni.

Sentiamo continuamente l’espressione Terzo settore, ignota nel senso ancora a molti. Di che cosa stiamo parlando?
È un universo che comprende realtà molto differenti, unite da alcune caratteristiche di fondo: la prima è agire pro sociale, nella logica del mutuo aiuto, della solidarietà della ricerca per far si che il comportamento individuale virtuoso possa produrre un cambiamento sociale volto a disegnare una società più equa e più giusta, nella quale vi sia una responsabilità di ciascuno che porti al bene comune. Le forme possono essere molto differenti, sia in termini giuridici che di modalità di intervento. Il forum ne rappresenta una parte, in particolare quella partecipativa, ma ci sono altre espressioni come quelle fondazionali o il mondo delle imprese sociali che non hanno queste caratteristiche, ma ugualmente perseguono il fine di bene comune, in una prospettiva non profit, sempre tesa ad un cambiamento sociale. Io credo che la nozione del terzo settore, in particolare italiana, sia quella di un mondo che ambisce ad avere una rilevanza anche nella costruzione della polis, cioè ad avere un valore non solo per le cose buone che si fanno, ma anche perché in questo modo si contribuisce a costruire un modello di società, a disegnare una prospettiva sociale che è quella nella quale il bene comune è il fulcro dell’azione sociale.

In un Paese come il nostro che da sempre ha avuto un grande volontariato, perché è così complesso capire l’importanza di queste realtà tra stato e mercato?
Forse perché la sottovalutiamo. Nelle nostre realtà territoriali la presenza dell’associazione di volontariato, dell’associazione ricreativa, della cooperativa, datano oltre un secolo e vengono considerate un elemento ordinario della vita sociale, non inteso nella sua forza e nella sua efficacia sociale. Ce ne stiamo accorgendo in questi ultimi anni in cui alcune di queste realtà iniziano a scricchiolare a fronte di grandi cambiamenti sociali, di quanto queste siano preziose, di quanto sia necessario tutelarle, rafforzarle, dare ad esse il giusto peso all’interno della nostra società.
Ci accorgiamo del valore delle organizzazioni sociali quando assumono un ruolo sostitutivo a fronte di un arretramento dello Stato. Questo è un limite, nel senso che il terzo settore dovrebbe essere sostenuto per la sua capacità di essere un soggetto generativonella società e non un soggetto sostitutivo in grado di sanare gli ambiti nei quali si aprono le ferite più gravi all’interno della coesione sociale.

Si parla molto di sussidiarietà, ma spesso è supplenza.
Veniamo chiamati dal pubblico costantemente per ruoli di supplenza o come meri esecutori di politiche da altri definite. Così le nostre potenzialità sono sotto-utilizzate e il Paese perde quella risorsa di innovatività e generatività che è contenuta nelle nostre organizzazioni e nasce dal ritrovarsi di persone che si assumono responsabilmente il compito di andare a trovare o a cercare nuove soluzioni per nuovi problemi.

Come è piena e feconda la parola generatività, in senso estetico ed etico. Ma quanto «pesa» il Terzo settore?
Sono circa 3.200.000 volontari, ovvero persone che con una qualche continuità prestano la loro azione in centinaia di migliaia di organizzazioni. Un numero superiore a quello che si riscontra in paesi in cui la forza economica del terzo settore è pari o superiore alla nostra. Una caratteristica tutta italiana.

Una polverizzazione con pro e contro?
Un aspetto che potremmo valutare criticamente, ma presenza capillare nel territorio, è un grande valore. Non abbiamo dati aggiornati, ma il censimento Istat che partirà nelle prossime settimane prevede di avere risposte da circa 400.000 organizzazioni, alcune delle quali piccole o piccolissime, ma molto attive. Il solo forum nazionale del terzo settore, che è il principale meccanismo di rappresentanza, riunisce circa 94.000 organizzazioni di base, in 75 grandi reti. Un numero enorme che corrisponde a persone che liberamente si associano per perseguire un fine comune sociale. Un settore che inoltre occupa oltre mezzo milione di lavoratori, aspetto che è cresciuto in questi anni in modo considerevole, e che è in grado di dare al terzo settore quella stabilità e quella credibilità anche nel dare le risposte appropriate ai cittadini.

In passato ha parlato di una necessaria crescita culturale del terzo settore. Quali evoluzioni si stanno registrando, complice, senza farne apologia, la crisi?
Ci sono stati cambiamenti radicali. La crisi sta mettendo a dura prova le organizzazioni, ma fa si che ciascuno vada all’essenziale e rilegga la propria mission, ripensi alle relazioni con il pubblico, a modalità di gestione più efficaci ed efficiente e al reperimento di risorse pubbliche non solo dal Pubblico, integrandole con altre fonti. Tutto questo ha rafforzato il Terzo settore, sempre più consapevole di essere anche un attore economico, parte dell’economia civile, pronto a portare la cultura e le modalità del proprio mondo, nei luoghi in cui l’economia si va definendo. Una contaminazione reciproca tra mondi in  corso, supportata da un processo culturale, che ci porta oggi a guardare al Terzo settore nell’ottica dello sviluppo e non solo in una prospettiva risarcitoria, o connessa alla logica della tenuta della coesione sociale, ma per cambiare i paradigmi e far crescere buona economia.

Un settore in crescita, ma perché tra i primi atti del governo troviamo la chiusura dell’agenzia per il terzo settore, presieduta dall’economista Stefano Zamagni che così tanto vi ha rappresentato in questi anni?
Credo che questa scelta improvvida e sbagliata sia derivata da una sottovalutazione di quello che è il mondo del terzo settore, delle sue peculiarità, delle sue atipicità
Una scelta che deriva da un lettura del mondo di oggi con gli schemi del passato. Questo Governo sta facendo tanto e bene in molti ambiti, lo riconosciamo come necessario per la tenuta del paese, per la serietà con cui sta affrontando molte questioni, ma su questo tema non ha centrato l’obiettivo, utilizzando il paradigma della relazione unica tra Cittadino e Stato, senza cogliere la ricchezza sociale dei copri intermedi per poter sviluppare un paese, senza cogliere il valore della sussidiarietà che con fatica abbiamo affermato, facendolo inserire nella Costituzione Italiana.
Un’azione da parte di chi considera la mediazione sociale come una stagnazione, un impedimento alla speditezza delle assunzioni di decisioni politiche.

Quanto la cultura nelle sue accezioni più ampie gioca nell’innovazione sociale?
Mai come oggi, in una fase in cui dobbiamo compiere cambiamenti strategici, passare a nuovi modelli di sviluppo è necessario avere una lettura consapevole della realtà, la capacità di creare visioni rispetto alla prospettiva del futuro e a fronte delle grandi ideologie del passato che per molto tempo hanno determinato le scelte strategiche, costruire elaborazioni di pensiero che nascono soltanto con la seria e paziente crescita culturale. Purtroppo vediamo oggi nella società civile, come nella politica, che non ne è che uno specchio, la mancanza di visioni. Si procede spesso per approssimazioni successive senza una strategia organica e con limiti strutturali che derivano appunto da una mancanza di un preciso riferimento culturale, di analisi che portino a collocare le singole azioni all’interno di un disegno complessivo che abbia connotazioni valoriali. Abbiamo quindi tutti un disperato bisogno di analisi, di ripensamento, di sperimentazione che poi è parte decisiva del processo innovativo, al fine di non navigare a vista, ma con una rotta.

Le fondazioni di origine bancaria vi sono state molto vicine. Si trovano oggi al centro degli «appetiti» con i loro 43miliardi di patrimonio. Quale ruolo secondo lei possono ancora svolgere?
Sono una risorsa preziosissima per il nostro Paese, e ci siamo mossi in questi mesi è proprio per preservarle dai tanti troppi ed ingiustificati attacchi. Stiamo difendendo qualcosa che appartiene al mondo no profit e che può essere determinante per concretizzare le trasformazioni, e non solo per l’imponenza dei loro capitali..
Abbiamo assistito in questi anni ad un’assunzione di consapevolezza da parte delle fondazioni del loro ruolo all’interno della società civile. Hanno per un certo tempo risposto alle banche di origine, ed oggi si rendono sempre di più conto che rispondono alle comunità. Hanno finalità che sono prossime alle nostre e ci aiutano ad operare secondo principi di metodi che non ci appartenevano, con rigore e attenzione sotto il profilo economico del nostro operato. Sono partner preziosi nell’innovazione sociale.

E la Fondazione Con il Sud ne è un esempio.
Proprio perché è riuscita ad unire le due culture differenti, del terzo settore e della cultura delle FOB. E’ una piccola realtà in termini di capitali, pur non irrilevante. Eroga poco più di 20milioni, ma ha la sua forza sta nell’innovatività del modello di azione e sta portando velocemente nel Mezzogiorno una progettualità e una crescita di competenze già leggibile. Un luogo di sperimentazione d’innovazione sociale esportabile e non più un vagone trainato.

Cosa si attende dal convegno di Torino?
Non è un caso che si sia scelto Torino, città sociale per eccellenza, culla dell’unità del nostro Paese, che  prima di altre è stata in grado di portare a sintesi culture, grazie a molte figure straordinarie che nel secolo scorso e anche più recentemente hanno aiutato percorsi di costruzione di solidarietà e di inclusione sociale. L’incontro avverrà in una struttura costruita dal mondo del terzo settore per la formazione dei giovani e delle persone con difficoltà. Mi attendo quindi un profondo confronto su modelli ed esperienze, per costruire il nuovo.

Vuole salutarci con un consiglio di lettura?
Un testo che ho recentemente particolarmente apprezzato è l’ultimo lavoro del Prof. Mauro Magatti «La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto». È la ricostruzione puntuale e impietosa della società oggi e di ciò che stiamo iniziando a vedere. Si stanno concludendo modelli e si aprono prospettive di cui abbiamo parlato per il mondo che verrà, all’uscita di questa crisi. Abbiamo bisogno di comprendere gli errori compiuti e contestualmente capire da dove ripartire, su quali basi iniziare a ricostruire un modello nuovo di sviluppo che sia per tutti gli uomini.

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