Una diversa sostenibilità: clac e l’esperienza dell’ Ecomuseo di Palermo
In occasione delle tre giornate palermitane (15 -16 -17 Ottobre) di «Nuove Pratiche con il sud. Spazi da non perdere», abbiamo chiesto a Cristina Alga e a Filippo Pistoia dell’Associazione clac, tra gli organizzatori dell’iniziativa insieme a Fondazione con il sud e a Fondazione Sicilia, di raccontarci la loro idea di sostenibilità e di riuso degli spazi, partendo dall’esperienza di progettazione partecipata messa in campo con l’Ecomuseo Urbano Mare Memoria viva di Palermo
Come nasce clac e quale la sua vocazione?
clac nasce nel 2004 come associazione culturale registrata alla Camera di Commercio di Palermo, che nel tempo è cresciuta e oggi si riconosce nella formula di impresa sociale, in linea con la normativa europea che dà riconoscimento giuridico alle imprese no profit, e alle PMI sociali. In Italia, le associazioni sono ancora molto collegate al volontariato e questo tipo di percezione non permette di far crescere realtà come la nostra, che, nella pratica, si comporta già come un’imprese sociale, operando sul territorio con servizi e attività che ne potrebbero garantire la sostenibilità.
Qual è la vostra mission e la vostra visione culturale
L’obiettivo è la valorizzazione del territorio siciliano e nello specifico palermitano, con la convinzione che attraverso la cultura sia possibile generare un cambiamento sociale. Abbiamo sempre lavorato in Sicilia e la nostra progettualità è orientata al sociale, al miglioramento dell’ambiente, della qualità della vita delle persone, all’integrazione, ma è sempre rimasta aperta, all’ascolto delle esigenze del territorio e lontana dall’idea dell’arte per l’arte. Di fondo, in questi anni abbiamo fatto storytelling del territorio, rispondendo ai bisogni della comunità, recuperando memorie in via di sparizione, e valorizzando le tradizioni. Sempre più ci stiamo specializzando in storytelling digitale e nel racconto multimediale delle testimonianze, adottando una metodologia partecipativa che per noi è diventata a tutti gli effetti una «pratica», che tendiamo a replicare in tutti i progetti. Lo stesso Ecomuseo Urbano Mare Memoria viva di Palermo è il risultato di questo modalità. Prima ancora del museo, l’esperienza l’abbiamo avviata come partner del progetto Valle del Belice, in cui abbiamo ricostruito la memoria prima e dopo il terremoto del 1968, coinvolgendo la popolazione del luogo.
Quale esperienza di partecipazione ha generato l’Ecomuseo e che ruolo gioca la multimedialità nella narrazione della memoria del mare?
A tutti gli effetti l’Ecomuseo è il risultato di una coprogettazione che, sin dagli inizi, ha coinvolto attivamente le persone che abitano il fronte mare dove sorge il museo, raccogliendone le testimonianze. La stessa collezione è il frutto di questa partecipazione che ha generato donazioni di video, cartoline, album di famiglia che sono alla base del percorso e della fruizione espositiva. L’Ecomuseo è l’espressione di uno spazio di comunità, in cui lo stesso pubblico diventa curatore immettendo sempre nuovi contenuti che noi montiamo e valorizziamo attraverso il ricorso al multimediale. In linea con lo spirito del progetto, la collezione è in fieri, si arricchisce con le nuove donazioni e il processo è sempre aperto. La multimedialità rende facile l’aggiornamento dei contenuti, che una volta digitalizzati entrano a far parte della narrazione, contribuendo alla creazione immateriale di una memoria viva che va tutelata e valorizzata alla stregua dei beni materiali.
Il Museo conta su una gestione pubblico privato che rappresenta in Italia un modello innovativo. Qual è il bilancio dei primi due anni di vita del museo?
Come Ecomuseo rappresentiamo un ibrido che sul campo sta sperimentando nuove modalità di interazione tra pubblico e privato sociale. Nel nostro caso, il rapporto è regolato da un semplice Protocollo di Intesa tra le parti, che sancisce i nostri ruoli: il Comune si occupa della gestione dello spazio, garantendone con il personale l’apertura e la manutenzione ordianria, mentre noi ci occupiamo dei contenuti, della programmazione e della manutenzione della collezione permanente. In questa divisione di compiti le chiavi restano al Comune che apre e chiude lo spazio. Questo tipo di vincolo pone un limite reale all’utilizzo potenziale dello spazio che per garantire aperture straordinarie deve sempre contare sugli straordinari pagati del personale pubblico. Straordinari che noi stessi faremmo senza gravare sulla casse pubbliche se rispondessero a esigenze di programmazione. Si pone il tema di quali forme giuridiche adottare per gestire in modo nuovo gli spazi affidati al privato sociale, riconoscendo le funzioni “pubbliche” delle pratiche innovative, che hanno ricadute positive sul territorio. La nostra esperienza non è oggetto di normative specifiche, sfuggendo alle logiche private di affido oneroso di uno spazio da parte del pubblico, o alla formula più comune di comodato d’uso. Noi siamo pronti, anche sul piano degli investimenti a diventare impresa sociale a tutti gli effetti e di fatto clac si comporta come se già lo fosse, investendo nell’Ecomuseo risorse private che provengono da altre progettualità.
Nelle giornate palermitane si è parlato a lungo di sostenibilità e di un ritorno sul territorio che deve superare l’investimento in cultura. Qual è la vostra idea di sostenibilità del Museo e in che modo ritenete di poter raggiungere l’obiettivo?
Contrariamente a quello che si dice comunemente, se gestissimo lo spazio ventiquattrore, con l’obiettivo prioritario di un ritorno economico, con facilità potremmo raggiungere la sostenibilità. Posto che l’ingresso è gratuito, abbiamo dei servizi a pagamento, quali le visite guidate e la didattica (con proposte innovative che ci stanno differenziando rispetto all’offerta del territorio), che aprono nuove prospettive di guadagno incrementando i servizi aggiuntivi.
In realtà, per noi è in gioco c’è un’idea diversa di sostenibilità che ha a che fare con la difesa dei beni comuni, con la funzione di pubblica utilità del privato sociale, in cui lo spazio, in questo caso il Museo, è a disposizione della collettività, e della rete di associazioni territoriali più qualificate che ci aiutano a gestire i contenuti, la programmazione e le proposte educative. La sfida per noi è conciliare la sostenibilità con la dignità del lavoro culturale, con l’obiettivo di generare inclusione e crescita sociale. Dal nostro punto di vista, è un valore poter ospitare gratuitamente il coro di bambini di Brancaccio negli spazi dell’Ecomuseo. Se inseguissimo un modello esclusivamente economico taglieremmo tutta la progettualità legata al sociale, al welfare, che non produce direttamente reddito. Nella nostra visione, la collaborazione è centrale, e tutti, nessuno escluso, possono proporre delle attività per il Museo. Siamo un ibrido che sta tra il Museo, con la gestione della collezione permanente, e il centro sociale per la vocazione ad accogliere le proposte del territorio.
Oltre al progetto dell’Ecomuseo di Palermo, realizzato con il contributo di Fondazione con il sud, quest’anno avete vinto il bando Telecom sui beni immateriali. Che cosa risulta premiante nel vostro modo di operare?
Di fondo non costruiamo dei progetti ad hoc in vista di un bando, al contrario partecipiamo ai bandi che hanno già nella formulazione temi e approcci in comune con i progetti che stiamo già portando avanti. Crazy food kit che si è aggiudicato il bando Telecom era già nelle nostre corde, e abbiamo semplicemente adattato il progetto alle richieste indicate. Artigianalità, storytelling, e valorizzazione del centro storico fanno già parte della nostra storia.I bandi sono dei catalizzatori di progetti che per reggere nel tempo devono contare su una visone di lunga durata, in grado di andare avanti anche quando cessano i finanziamenti.
Nelle tre giornate palermitane si è parlato di mappare i luoghi di innovazione sociale sparsi per il territorio italiano e di condividere le pratiche con l’obiettivo di accelerare il cambiamento sociale. Che tipo di strumenti nella vostra esperienza possono essere utili ad altri innovatori?
Di fondo, ogni caso è a sé, a partire dagli stessi spazi recuperati che in base alla metratura suggeriscono pratiche e usi diversi. L’ esperienza di Ex fadda in Puglia non può essere paragonata per dimensioni e ambizioni a quella dell’Ecomuseo. Resta però innegabile che il fare rete e conoscersi in occasioni di incontri come questi di Palermo permette di acquisire e di scambiare informazioni utili, e perché no di collaborare a progetti guidati da una comune visione sociale. L’essere usciti dall’anonimato, rimette al centro il tema del privato sociale che è diventato argomento di pianificazione politica, anche grazie alle coperture mediatiche delle pratiche sparse per il territorio. E’ in corso una legittimazione della figura dell’innovatore sociale che sicuramente fa meno notizia dei dieci super direttori museali ma il cui contributo è in grado di modificare e innovare la realtà.
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