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Sui visitatori dei musei e la “tirannia dei numeri”

  • Pubblicato il: 15/01/2018 - 00:00
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Ludovico Solima

Il vivace dibattito che si è sviluppato nel corso delle ultime settimane in merito ai risultati ottenuti nel corso del 2017 dai musei statali italiani ha richiamato alla mia memoria un vecchio articolo di una grande studiosa dei musei, la prof. emerita Eilean Hooper Greenhill della University of Leicester, che nel lontano 1988 ha scritto un saggio dal titolo “Counting visitors or visitors who counts“.
 


 
In questo saggio, di fondamentale importanza negli studi di management museale, la studiosa metteva in evidenza l’assenza (all’epoca, nel Regno Unito) di studi di tipo qualitativo sulle esperienze di visita nei musei, osservando che “In the absence of these, museum professionals have no way of judging what messages they are managing to get across to the public, and the tyranny of numbers goes uncontested”. 
Ora, sono passati circa trenta (30!) anni dalla pubblicazione di questo saggio e mi sembra di poter affermare che la situazione, quanto meno nel caso italiano, appare ancora piuttosto deficitaria, stante l’assenza di informazioni precise e attendibili sui visitatori dei nostri musei, pubblici o privati che siano.

In effetti, nei primi anni 2000 l’Ufficio Studi dell’allora Ministero per i beni e le attività culturali promosse lo svolgimento di alcune rilevazioni nei musei statali presenti sul territorio nazionale. Quella breve stagione di ricerca – alla quale ho avuto il privilegio di partecipare con alcuni lavori (link 1 e 2) – ha avuto senz’altro il merito di porre in risalto in Italia il tema dello studio dei visitatori, inducendo alcuni Soprintendenti a sviluppare quanto meno delle riflessioni in merito all’utilità di disporre di dati scientifici sulla base dei quali assumere le decisioni in merito alla vita dei loro musei.

E’ però mancato il passo successivo, cioè la creazione di un Osservatorio Nazionale sul pubblico dei musei, che potesse realizzare in modo sistematico la raccolta, l’analisi e la diffusione di dati e informazioni sulle persone che si recano ai musei nonché – aspetto a mio giudizio ancora più importante – su coloro che i musei non li visitano affatto.

La raccolta dei dati sui pubblici attuali e potenziali dei musei italiani, nel corso degli ultimi anni, è stata dunque demandata alle iniziative dei singoli istituti, componendo un quadro complessivo molto frammentato, costellato da rilevazioni il più delle volte condotte in modo estemporaneo, circostanza che ha impedito lo sviluppo di un approccio metodologico condiviso e quindi di una qualsivoglia possibilità di effettuare comparazioni attendibili tra una rilevazione e l’altra nonché di sviluppare valutazioni a livello di sistema.

Il risultato di tutto questo è quindi che, attualmente, il variegato e composito universo dei visitatori dei musei italiani appare come un quadro vagamente indistinto e dai confini incerti; così come lo è quello che prende in considerazione una differente platea di soggetti, i nuovi “utenti” dei musei, costituita da coloro che attivano con essi delle relazioni digitali, attraverso internet, app, social media (e videogiochi); utenti dei quali si sa ancora veramente poco e che peraltro non necessariamente coincidono con i visitatori attuali dei musei.

Pertanto, come trenta anni fa la Hooper Greenhill paventava, emerge in tutta la sua crudezza la “tirannia dei numeri”, che molto poco dicono sui visitatori dei musei e che spesso vengano peraltro anche interpretati in maniera goffa e distorta. Uno degli errori più comuni è infatti confondere ingressi e visitatori, senza tener conto della possibilità – tutt’altro che remota – che un certo numero di persone visiti più di un museo l’anno (o più volte il medesimo museo nel corso dell’anno) e, quindi, venga conteggiato più di una volta nelle rilevazioni basate sul numero di biglietti venduti. In altri termini, l’equivalenza tra ingressi e visitatori risulta del tutto priva di fondamento e dunque le scarne informazioni statistiche che sono disponibili sui visitatori dei musei italiani andrebbero quanto meno interpretate in modo più attento. Ma non mi sembra questa una questione essenziale. Anzi.
 
Il punto che vorrei invece mettere in evidenza è che non si deve rischiare di soccombere alla “tirannia dei numeri” in quanto, oltre alle ragioni indicate dalla studiosa britannica, va osservato che i dati di cui disponiamo sono talmente scarsi che non consentono di sviluppare alcuna riflessione realmente utile.
La verità è che non sappiamo un bel niente dei visitatori dei musei, neanche di quelli statali, nel cui aggregato ricadono gli istituti maggiormente visitati del nostro Paese: non sappiamo quanti sono i visitatori, per quanto appena detto; non conosciamo il loro profilo socio-demografico; non sappiamo quindi il loro livello di istruzione, se i visitatori sono italiani o stranieri e, degli italiani, non sappiamo – ad esempio – da quale provincia provengono e quindi quale sia la capacità di attrazione di un museo dal punto di vista territoriale; non sappiamo se sono adulti o anziani, ma solo quanti di essi hanno meno di 18 anni, che in linea di massima sono pari agli ingressi gratuiti; non sappiamo se svolgono la visita in modo individuale o in gruppo, se si recano più volte nei musei durante il corso di un anno né se frequentano altre istituzioni o culturali (teatri, biblioteche, etc.). E questo solo da un punto di vista quantitativo.

Perché – e questo è il tema che mi sta a cuore – il solo dato numerico è insufficiente per la comprensione del fenomeno in discorso: occorre, in altri termini, ragionare (anche e soprattutto!) in termini qualitativi e interrogarsi sui visitatori dei musei ponendosi domande del tipo: perché e con chi visitano il museo, quali aspettative hanno, a cosa sono interessati, quale tipo di informazioni sulle collezioni permanenti vorrebbero ricevere, in che modo vorrebbero riceverle – se attraverso supporti di tipo tradizionale (didascalie e pannelli di sala) o di tipo digitale (app e dintorni) – e quando vorrebbero riceverle, cioè se prima, durante e/o dopo la visita. E ancora, conclusa l’esperienza di visita, cosa hanno tratto da tale esperienza e cosa hanno apprezzato di più tra i servizi offerti dai musei, qual è stato il loro livello complessivo di soddisfazione, se prevedono di realizzare altre visite in altri musei, etc.

L’elenco delle domande potrebbe essere evidentemente ben più lungo, ma mi fermo qui. Non dimenticando però l’esistenza di un universo ancora più numeroso, quello dei non visitatori, che rimane ancora troppo spesso ai margini della riflessione politica, scientifica e accademica.

Sotto questo profilo, va peraltro osservato che la “tirannia dei numeri” si esprime anche nel sottovalutare l’importanza dell’obiettivo di sviluppo del pubblico (il c.d. “audience development“), che sempre più spesso viene richiamato come elemento qualificante dell’approccio manageriale dei musei. Ho infatti la sensazione che anche in questo caso ci sia una sorta di fraintendimento: sviluppare il pubblico di un museo non vuol dire incrementare il numero dei visitatori ma anche e soprattutto ampliare la loro tipologia, raggiungendo quindi una pluralità di pubblici e, tra questi, anche coloro (tanti e sicuramente ancora troppi) che i musei non li visitano affatto e che non esprimono alcun interesse a farlo.

Anche alla luce di ciò potrebbero pertanto essere valutate alcune iniziative (esposizioni temporanee o eventi di vario genere) che in tempi recenti hanno acquisito spazio nella programmazione culturale dei musei italiani e che, in modo talvolta affrettato, nel migliore dei casi vengono qualificate come stravaganti, quando non vengono invece bollate come del tutto inutili o piuttosto dannose e comunque poco rispettose della natura di un museo.
Ma occorre considerare che alcune di queste iniziative potrebbero invece avere il pregio di aumentare proprio la capacità di attrazione del museo verso nuovi pubblici, estendendo in senso orizzontale la platea del museo e, quindi, il suo impatto effettivo sulla collettività. “Potrebbero”, perché in assenza di informazioni sul profilo dei visitatori dei musei, da un lato, e dei frequentatori di tali iniziative, dall’altro, è del tutto impossibile affermare che tale obiettivo sia stato raggiunto; né, occorre dirlo, che non lo sia stato…

In conclusione, mi piacerebbe che si provasse a sviluppare una riflessione di ampio respiro su questi temi perché ritengo che, in assenza di dati puntuali e aggiornati sui pubblici, tanto a livello di singolo istituto che a livello di sistema, diventa altrimenti molto difficile assumere decisioni consapevoli e ponderate in ordine alla vita dei musei e al loro funzionamento.