Siti UNESCO: integrazione col territorio
Ravvedimento operoso è detto, nella sfrenata fantasia lessicale della burocrazia, il tardivo versamento di tributi dovuti. Termine che per il fisco sa di sarcasmo, ma diventa un incoraggiamento se significa il darsi da fare di un equipaggio per correggere la rotta di una grande nave di difficile governo. In questi termini, si può dire che nella VII Conferenza nazionale dei Siti Unesco si è delineata una strategia collettiva di ravvedimento operoso
Il MIBACT ha riunito in conferenza l’8 novembre a Roma, per la prima volta da sei anni, i 51 Siti italiani iscritti nella Lista del Patrimonio dell’Umanità, in interazione con gli altri ambiti italiani inseriti nei programmi Unesco, numerosi e di grande interesse anche se poco conosciuti: quelli della lista del Patrimonio immateriale, del network delle Città Creative, della rete dei Geoparchi, delle riserve Man and Biosphere, della federazione dei Club.
L’Italia è ovviamente il paese con il maggior numero di Siti iscritti nella Lista Unesco. Ogni anno dal territorio si organizzano proposte di candidatura per una mezza dozzina di luoghi che meriterebbero attenzione quanto altri beni già iscritti, come i graffiti della val Camonica o le testimonianze dei Longobardi, il canto a tenore sardo o il saper fare liutario di Cremona. Ma se da 51 siti iscritti si passasse a 100 non cambierebbe il rapporto tra i beni “eccezionali” diffusi in Italia e la loro notorietà planetaria: è l’Italia nel suo complesso che andrebbe riconosciuta come Patrimonio mondiale.
Ma, come sensori di una rete globale, proprio per la loro “puntualità” i siti Unesco rivelano le tendenze e i rischi a cui è sottoposta la cultura nel mondo, le sue testimonianze, le sue potenzialità, l’insostenibilità delle dinamiche che da essa prescindono. Come lenti di ingrandimento, mostrano in un solo luogo la potenza delle nostre civiltà, ma anche i virus devastanti che esse alimentano. La distruzione iconoclasta di monumenti afgani o l’infantilismo grossolano delle navi da crociera nel bacino di S.Marco assurgono a simboli di un imbarbarimento impressionante. Il crollo della Basilica di Assisi del 1997 diventa testimonianza di fronte al mondo della rovina ininterrotta dei terremoti nei borghi appenninici.
E’ l’accreditamento planetario che dà questa potenza ai Siti Unesco, una sineddoche nelle geografie (e nelle storie) che rappresenta intere regioni (e periodi) a partire da un luogo, da un episodio.
Si capisce così la mobilitazione che provocano le iniziative, quasi sempre locali, per arrivare ad essere iscritti nella Lista del Patrimonio: è come montare su un palcoscenico mondiale per esibire le proprie bellezze. Le candidature al Comitato di Parigi sono animate da un cocktail adrenalinico di narcisismo e senso identitario, attese di ricadute sul turismo e prese di coscienza delle responsabilità ereditate. Si esalta l’eccellenza rispetto ad ogni altro concorrente, vicino o lontano: si stacca un fiore magnifico dalla pianta per metterlo in mostra in un vaso speciale.
Anche i Piani di gestione che accompagnano obbligatoriamente le candidature sono intessuti di strategie per segnare la differenza, di attenzioni per conservare e valorizzare l’eccezionalità, prevedendo cure e interventi per lo più concentrati sui siti. Ma proprio nella gestione si nascondono i problemi: quando scema l’eccitazione per l’iscrizione e dall’entusiasmo della competizione si passa ai passi lunghi e ben distesi delle pratiche ordinarie, allora emerge in tutta la sua fragilità la macchina organizzativa italiana. Infatti si deve tener conto che la gran parte dei Siti sono gestiti da Comuni, soli o associati, e che i problemi che assediano i Comuni sono enormi, intrecciati e spesso irrisolvibili a partire dalle sole forze della città. Grande o piccola che sia.
Occorrono visioni e strumenti di maggiore respiro, occorre rivolgersi a territori più ampi, in ogni caso e anche per i temi gestionali che interessano i Beni Unesco. Ma se il territorio è ricco di potenzialità, la gestione territoriale in Italia è povera di tradizione amministrativa per i temi d’area vasta: smontiamo le province e le comunità montane, lasciamo soli i comuni (salvo per le città metropolitane, se mai funzionassero). Si sente gravemente la carenza di una abitudine a pensare il territorio come rete d’appoggio e non come sede del confronto tra campanili. In una fase in cui ogni confinazione sembra pagare politicamente, al contrario agli amministratori locali è sempre più evidente che siamo di fronte a problematiche globali a cui ci si può opporre solo unendo le forze delle piccole comunità identitarie.
Ecco il ruolo della Conferenza del MIBACT: è stata intitolata “Per un Osservatorio dei siti Unesco”, gettando le basi condivise per un servizio centrale a supporto delle gestioni dei Siti, che in molti casi sono in difficoltà a fronte di trend epocali, come l’abbandono dei territori periferici o il superaffollamento delle mete turistiche più famose.
E’ la domanda che emerge coralmente dai partecipanti alla conferenza, che siano i rappresentanti degli organismi internazionali che affiancano l’Unesco, o le Regioni che in qualche caso virtuoso (Lombardia Piemonte Campania) tentano coordinamenti tra i gestori dei Siti presenti a vario titolo. Ma soprattutto è la domanda che emerge dalla giornata in cui si è registrato il racconto e l’adesione dei gestori dei Siti, una quarantina di interventi che a vario titolo chiedono strumenti per affrontare problemi che vanno molto al di là dei loro territori e delle loro competenze.
La Conferenza è il primo passo di un ravvedimento operoso delle istituzioni, per far uscire i Siti dalla loro solitudine, favorire la circolazione dei numerosi e lodevoli esperimenti virtuosi, promuovere l’immersione nel territorio, farli diventare protagonisti delle strategie culturali diffuse.
E’ un lavoro dal basso tutto da fare, una strategia controcorrente di servizi centrali per le periferie che, una volta tanto, utilizza la Cultura per avviare processi d’integrazione funzionale, territoriale e settoriale di cui il Paese ha strutturalmente bisogno, in tutti i campi: dall’economia ai servizi, dall’accoglienza all’assistenza alle aree disastrate.
Ma ci sono almeno tre motivi perché a partire da una rete dei Siti Unesco si possa far leva su risorse e relazioni che attivino un processo di riscossa complessiva dei territori:
- l’Unesco ci ha abituato a considerare il vantaggio di integrare le risorse: cultura e natura, materiale e immateriale, monumenti e paesaggio si presentano come un insieme che fa la forza dei nostri territori (non è un caso che il patron politico della Conferenza sia Borletti Buitoni, il sottosegretario MIBACT che ha aggiunto la delega Unesco a quella del Paesaggio). E’ una prospettiva fondamentale per gli altri settori del bene comune e certamente è la prima voce di un nuovo censimento delle risorse territoriali su cui contare per i progetti di sviluppo sostenibile di nuova generazione;
- i Piani di gestione, ancorché da ripensare, sono lo strumento proprio di amministrazione dei Siti. E’ l’unico caso in Italia (con gli enti di gestione delle aree protette) di soggetto che governa il territorio con strumenti gestionali e non con pianificazioni prescrittive. Le nostre amministrazioni non sono abituate a darsi strumenti gestionali, che nei paesi del nord Europa e nelle istituzioni europee sono consuetudine da 50 anni. Dunque qualche modello di riferimento e una leva di tecnici che, a partire dai Beni Unesco, si formano con queste competenze è preziosa per le prospettive future di governo del territorio;
- infine la vetrina: possiamo dire “il mondo ci guarda”, non possiamo fallire e fare figuracce sotto i riflettori dell’Unesco. E’ un ricatto miserrimo (il contrario dell’etica kantiana che mi piace) ma probabilmente funziona: non si può sbattersi per ottenere un riconoscimento dei propri territori e poi, negli anni successivi, non fare altrettanto per presentarli ai visitatori.
Cominceremo il ravvedimento operoso dal salotto buono.
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