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Retoriche della filantropia

  • Pubblicato il: 23/11/2013 - 13:29
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Michele Dantini

Curateconcorso per futuri curatori promosso da Fondazione Prada e Qatar Museums Authority, solleva pressanti domande sul rapporto tra arte,  creatività e istituzioni. Quale importanza attribuiamo alla «creatività» in una moderna società democratica? Come immaginare trasformazione radicali della «mostra» o del «museo»? Come valutare la filantropia culturale?
La nozione di «curatela» è intesa in senso lato: il concorso non si rivolge a curatori già in attività né a aspiranti tali ma stabilisce che «tutti siamo curatori». La scelta di non riconoscere competenze tecniche in tema di curatorship ha implicazioni sottilmente polemiche. Può apparire paradossale che una salubre professione di insofferenza per le burocrazie dell'«arte contemporanea» giunga dal cuore stesso del sistema, l'industria del lusso. Ma è proprio così: a capo delle istituzioni promotrici troviamo donne direttamente o indirettamente connesse alle griffes Prada e Valentino.
Come si è giunti al varo di Curate da parte di due fondazioni tanto prestigiose? Il processo si rivela interessante. Una breve ricostruzione del contesto istituzionale giova a discutere e situare.
Per Al Mayassa bint Hamad bin Khalifa Al-Thani, responsabile della Qatar Museums Authority e qualificata collezionista, l'arte ha il compito di «unire e non dividere». Dietro il munifico interesse per il contemporaneo intravediamo considerazioni politiche. La coesione sociale appare particolarmente a rischio in uno Stato semischiavistico retto dispoticamente da una famiglia in possesso di ricchezze incomparabili. Proprio il timore per le sorti della monarchia spinge verosimilmente la quattordicesima figlia dell'ex emiro a impegnarsi con continuità in ambiziosi progetti culturali.
Considerata da punti di vista occidentali, la giovane regina che distoglie lo sguardo dalla cruda realtà del dominio di clan (o di classe) per dedicarsi a nobili iniziative umanitarie incarna forse meglio di chiunque altro al mondo l'intreccio neoliberista tra conservazione politica e innovazione culturale.
La famiglia reale del Qatar si è rivelata da tempo abile a giocare la carta del «politicamente corretto» sul piano internazionale (attraverso Al Jazeera o altro). Al tempo stesso non esita a impiegare lavoratori immigrati sottopagati all'interno dei confini nazionali, commerciare in armi, supportare l'islamismo radicale in nord Africa e Europa o progettare investimenti immobiliari invasivi in aree pregiate sotto il profilo turistico e ambientale (come la Costa Smeralda).
Fondazione Prada presta sfortunatamente scarsa attenzione alle formidabili ambiguità della partnership. Criteri economici e di opportunità imprenditoriale sembrano imporsi sugli aspetti potenzialmente controversi e più retrivi. Malgrado il comitato d'onore di Curatedispieghi maggiordomi d'eccezione come Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist, è tuttavia evidente che «cultura» e «filantropia» giocano nella vicenda un ruolo minore. Trusteesmuseali, fondazioni culturali, case d'aste e giurie «artistico-contemporanee» sono oggi enclave extraterritoriali che i fondi sovrani e le corporations del lusso usano per incontrarsi e progettare nuove sfere di espansione economica. Tutto qui: una sorta di Twiga Beach Club diramato e globale, anche se fatalmente più composto e blasonato del club di Flavio Briatore.
Nel promo che accompagna il lancio di Curate le immagini di dissenso, povertà e migrazione stridono con le storie di successo, le bizzarrie da società affluente o la voce profetica dello speaker fuori campo. Ma le pratiche dell'attivismo non dovrebbero diventare ornamento dei musei. E qual è il rapporto tra gli edificanti obiettivi dichiarati («la ricerca globale del talento curatoriale») e l'attempata body builder? La fiducia in se stessi permette di ignorare il trascorrere del tempo biologico, e l'«ottimismo» costituisce un elisir di lunga vita: questo il messaggio del cameo. L'ostinazione a primeggiare o la mancanza di pudore non hanno però niente a che fare con la «cura». L'egotismo dell'anziana virago sembrerebbe piuttosto una parodia grottesca, prepolitica e presociale, del principio di responsabilità.
La retorica della «creatività» non ripara all'ineguaglianza, malgrado sia questo che ci si affretta a dichiarare. Inventività, lungimiranza, empatia, dedizione sono e saranno in larga parte destinate all'annientamento in un mondo unilateralmente rivolto al profitto (o al «valore») e attraversato da folli disequilibri tra classi, generazioni, territori. La volontà individuale non è sempre sufficiente. «In una società in cui tutto è in vendita», osservaMichael J. Sandel in Quello che i soldi non possono comprare (2013), «la vita è più difficile per chi dispone di mezzi modesti... Man mano che il denaro arriva a comprare sempre più cose - l'influenza politica, una buona assistenza sanitaria, una casa in un quartiere sicuro, l'accesso a scuole di élite - la distribuzione del reddito e della ricchezza assume un'importanza drammaticamente crescente». In assenza di progetti politici mirati e di una maturazione culturale complessiva delle classi dirigenti globali un numero intollerabilmente ampio di persone continueranno ogni giorno a provare pena per la fatica non remunerata, le speranze disattese, le opportunità sottratte o dilapidate. Nelle loro vite non ci sarà spazio per «arte» o «cultura».
Qual è il rapporto tra "creatività" e classi medie? Tra «visione» estetica e progressismo politico e sociale? Esiste o meno un diritto comune alla distensione riflessiva, alla pausa, all'evoluzione personale? Sono domande che occorrerebbe porsi se intendiamo confrontarci con il problema dell'esclusione in modi né reticenti né casuali. Non è in questione un'astratta "diffidenza verso la ricchezza", come lamenta Miuccia Prada; ma la contestazione di pratiche culturali votate alla sua aggressiva acclamazione. Avulsa e depoliticizzata, nessuna "creatività" salverà il mondo.
Curate ha l'ipocrisia del talent. L'exploit del debuttante sembra concepito per restaurare la traballante autorevolezza dei giurati; e il lancio dell'outsider che proviene dalle Periferie magnifica la benevolenza del Centro. Ma se ci proponessimo davvero di cambiare il mondo (e non di allestire con spietata grazia il bazar dell'Impero!) dovremmo astenerci dal cooptare paternalisticamente la rivoluzione.
Viviamo, certo non solo in Italia, un momento di grande inquietudine. Un'epoca sembra essersi conclusa e le sue dogmatiche parole d'ordine hanno perduto di autorità. Tuttavia non discerniamo ancora chiaramente quale potranno essere gli assetti sociali e istituzionali futuri. Le classi medie sono ovunque in difficoltà in Occidente, e la sfera dei diritti si va erodendo sotto la pressione di formidabili disuguaglianze economiche, sociali e cognitive. Questa transizione si concluderà con il rafforzamento della democrazia? Oppure con il dominio di isolate oligarchie politico-economico-finanziarie? Non lo sappiamo. Personalmente so bene però dove vorrei potessero collocarsi artisti, comunità creative, istituzioni educative e iniziative culturali: al servizio dei cittadini senza protezione, in difesa della dignità del 99%.
Istruzione, sanità, ambiente, legalità, occupazione qualificata: queste le priorità di chi combatte per una maggiore giustizia sociale. Spezzerei volentieri una lancia a favore del «modello Gates» se il modello Miuccia-Al Mayassa dovesse rivelarsi l'altra opzione filantropica. Ci rivolgiamo ai promotori di Curate. Vogliamo incoraggiare apprendimento e competenza, condivisione e tutela dei beni comuni, accesso alle professioni qualificate, contrasto alla corruzione? Vogliamo davvero (come si afferma) «provocare» e «aiutare le persone a pensare»? In ogni parte del mondo le istituzioni pubbliche dedicate allo studio delle arti e delle Humanities (anche nella loro relazione virtuosa con le nuove tecnologie)sono sotto attacco per effetto del pensiero unico e del dogma efficientista. Creiamo dunque istituzioni educative locali a sostegno del pensiero critico e del «talento» senza preoccuparci se una voce dissonante, proveniente dalle più remote contrade del pianeta, nominerà un giorno la parola «conflitto».
In alternativa, con il lancio di concorsi, la luccicante prospettiva dello star system e la progettazione di mostre estemporanee, avremo solo l'ennesimo orsetto ammaestrato pronto a piroettare al cospetto di Sua Maestà.

da Huffington Post, edizione on line, 16  novembre 2013

Michele Dantini è Storico dell’arte contemporanea, critico e saggista