Repubblica in azione
Il primo dato che colpisce in questa inchiesta è l’enorme diffusione del fenomeno delle fondazioni che costituisce, già di per se’, una straordinaria novità storica e culturale del nostro tempo.
Il meccanismo finanziario che tradizionalmente ha mosso la fondazione, e cioè il perseguimento di interessi mediante, soprattutto, l’immobilizzazione patrimoniale, ovvero la destinazione vincolata dell’uso di talune ricchezze, ha infatti trovato, quanto meno a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, ostacoli, variegati sospetti ed ostilità, in breve essendo stato ritenuto – a torto o a ragione - concausa dell’immobilismo economico dei sistemi assoluti, e propaggine degli assetti feudali, imperniati intorno alle variegate pratiche riassunte sotto la denominazione del fedecommesso, il cui superamento, per molti, ha costituito il vero inizio dell’epoca moderna, improntata alla mobilità sociale e – perciò – economica, e dunque alla quanto più libera disponibilità e commerciabilità delle cose e dei beni, col conseguente e diffuso divieto delle sostituzioni fedecommissarie.
Insomma, ciò che oggi chiamiamo fondazioni e gli altri metodi di sottrazione di consistenze patrimoniali alla libera circolazione furono tra i bersagli dei movimenti politici delle rivoluzioni borghesi tra XVIII e XIX secolo, sul presupposto che il sistema che combattevano si propalasse nel tempo proprio ricorrendo a quelle pratiche, che consentivano la trasmissione infrazionabile di consistenti patrimoni, e dunque di forza concentrata in poche mani; e, va notato, l’ostracismo è perdurato ben oltre l’affermazione dello Stato liberale, tanto che in Italia non abbiamo avuto alcuna disciplina normativa delle fondazioni sino al codice civile del 1942.
Tuttavia vanno anche registrate diverse deroghe storiche; basti qui menzionare gli esempi delle così dette fondazioni pubbliche, ovvero le Istituzioni di assistenza e beneficenza, non a caso disciplinate espressamente, ed in forma pubblicistica, almeno a partire dal 1890, e tali rimaste per quasi un secolo, e della disciplina del demanio e della restante proprietà pubblica, pur con tutte le sue contraddizioni.
Si può cioè affermare che l’avversione per il meccanismo economico dell’immobilizzo patrimoniale è stata tradizionalmente superata se l’accumulo venisse orientato ad esigenze che, in termini politici prima ancora che giuridici, potremmo definire di interesse collettivo, di pubblica utilità.
La pacifica ammissibilità delle fondazioni, ed anzi la espansione che se ne registra, oggi, costituisce dunque un importante segnale culturale e politico, un superamento di quello storico ostracismo che va interpretato e ben sistemato; ma al contempo non va dimenticato che proprio la linea storica ci dice che, qualunque sia la loro costruzione, le fondazioni hanno senso, ci sono utili, se perseguono finalità generali, ultra individuali, collettive.
Gli interessi collettivi hanno da tempo cessato di essere maneggiati esclusivamente dai corpi politici e di governo pubblici; molte spiegazioni ne sono state date, e qui potremmo solo menzionare il fatto che, trattandosi di attività riferibile alle collettività e ai singoli componenti nelle loro relazioni sociali, è andato prendendo corpo l’orientamento costituzionale che vede la funzione pubblica come un compito oggettivo, la cui conduzione non è solo e necessariamente in capo ad istituzioni pubbliche, ma anzi rientra in quel “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” che l’art. 4, comma 2, Cost. affida ad ogni cittadino e ad ogni organizzazione cui esso può dar vita.
A partire da questa disposizione è in effetti possibile ammettere un sistema sociale nel quale i cittadini che ne hanno possibilità possono assumersi la responsabilità di dare sostanza ai processi decisionali ad effetto collettivo, e non solo mediante la partecipazione alle organizzazioni politiche e sindacali; un assetto in cui i bisogni collettivi possono cioè essere affrontati in una dialettica che non si svolge più entro i soli confini dell’arena dove si confrontano i partiti politici, e dei luoghi istituzionali di governo (anch’essi peraltro plurali), ma è ormai chiaro che il pluralismo sociale vi attrae formazioni e gruppi che, prescindendo, affiancandosi o distinguendosi da quelli formalmente politici, partecipano con forme varie, e potenzialmente in ogni fase, alla dinamica delle decisioni collettive, in atteggiamento sostanzialmente politico.
Posta in questo quadro, assume un connotato peculiare l’esplosione odierna nel variegato mondo della cultura delle fondazioni, che dunque non sono solo fenomeni à la page, ma costituiscono una modalità per un impegno pubblico nelle società complesse e decostruite di oggi: un modo non solo di prendersi cura di qualcosa che ha rilievo collettivo, ma di assumere un protagonismo, di affermare, di proporre, vorrei dire di esserci.
Il notevole materiale raccolto da questo rapporto (e inspiegabilmente non reperibile in alcun luogo istituzionale) ci dice abbastanza chiaramente che le fondazioni esaminate sembrano tutte animate da intenti di “promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca”, e di “tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, compiti che, non a caso, l’art. 9 della Costituzione affida non solo allo Stato, alle Regioni, ai Comuni, alle istituzioni pubbliche, insomma, ma alla Repubblica nel suo complesso, e dunque a ciascuna delle sue componenti, tra le quali siedono, ormai con titolo, diverse altre organizzazioni che, avendone possibilità, decidono di occuparsene.
Ciò che stiamo osservando, dunque, è una componente della Repubblica in azione.
Questa lettura di scenario è, poi, composta di diversi dettagli.
Vi ritroviamo, in primo luogo, il complesso e difficile tema del pluralismo, non più ristretto, come nei primi anni della esperienza costituzionale, in termini solo partitici; la presenza di molte fondazioni, e di alcune costruite in termini di partenariato tra soggetti pubblici e privati, lascia scorgere una pluralità di centri decisionali, e di spesa, orientati allo svolgimento del compito repubblicano della tutela e della promozione della cultura, come di altre missioni costituzionali. Molteplicità che è, per forza, sintomo di complessità, ma anche, appunto, di pluralità di approcci, indirizzi, linguaggi, schemi, opinioni. Non a tutti potrà essere gradito il gran chiasso che ne può venire; ma è una conseguenza fisiologica dell’approccio pluralistico del nostro sistema, e del dispiegarsi delle sue vele, a lungo trattenute entro diversi legami. Una condizione per molti aspetti nuova, che perciò può anche disorientare, e che necessita, come tutte le forme della complessità, dell’affinamento dei sistemi di selezione e vaglio di ciò che merita, un compito impegnativo e fallibile, ma anche ineluttabile segnale di società colte, culturalmente avanzate, dove finalmente costituisce tema di dibattito la migliore distribuzione dei beni che rendono qualità alla vita, oltre che di quelli economici.
Si può così leggere anche il secondo dettaglio, l’insorgere ed il successo delle fondazioni di partecipazione, una sorta di evoluzione della specie, più che una ibridazione tra modelli giuridici.
A giudicare dal materiale qui raccolto, pare evidente che si tratta di un fenomeno molto denso di tematiche: a citarne qualcuna in ordine sparso, troviamo la finanza privata che si aggiunge a quella pubblica (o vi supplisce senz’altro), la forza della collaborazione, la transattività delle decisioni, l’impresa non profittevole, il contenimento dei fenomeni di dominanza, la possibilità di costituire strutture stabili anche con investimenti iniziali contenuti, la valorizzazione delle forme di expertise, il ruolo delle politiche di governo in confronto alla cultura.
Quest’ultimo punto può meritare un’attenzione, anche perché si registra un vero e proprio dilagare delle fondazioni con la partecipazione di soggetti pubblici di ogni livello di governo, con molti enti che vedono in questa formula la possibilità di costituire strutture culturali per il territorio.
Il fenomeno, ancora una volta, può essere spiegato in molti modi, perché consente l’utilizzo pubblico di beni e patrimoni artistici e culturali privati, una spesa pubblica contenuta in confronto a quella che sarebbe necessaria per fare tutto da soli con una sufficiente qualità, la disponibilità di uno strumentario giuridico apparentemente privatistico, che sembra dunque più agile rispetto alla disciplina pubblicistica, tutti argomenti che, per la verità, potrebbero essere discussi e che vanno trattati con molta cautela. Ma, si può dire, vi si può leggere anche la consapevolezza che le istituzioni pubbliche non sono sempre le più adatte a far da sole negli ambiti culturali, non sempre hanno le risorse, le strutture, il personale, l’esperienza in grado di produrre qualità, affidabilità, riconoscibilità, rilevanza, ed hanno bisogno di collaborazioni ed alleanze che le possano attestare o rafforzare. Argomenti che diventano ancora più delicati quando ad essere trattato è il materiale della cultura contemporanea, specie quella giovane e vivente.
Qui potrà essere utile connettere queste osservazioni con quelle sul rilievo del pluralismo; quando le fondazioni sono a partecipazione mista, tra soggetti pubblici e privati, si può dire che si verifica un punto di incontro amministrativo tra percorsi propriamente pubblici, e cioè formalmente politici, e privati, ma anch’essi, si è visto, sostanzialmente politici. Ed è questa una delle chiavi per comprendere il successo della formula della fondazione, che sembra la più adatta a favorire questo incontro, tutto peculiare, che sembra confermare come ci si trovi di fronte ad un fenomeno repubblicano.
Ma bisognerebbe concordare sul fatto che la fondazione, per rimanere tale, e a differenza delle associazioni e delle altre esperienze di partenariato, deve trovare nelle tavole fondative i propri indirizzi, e dunque non può divenire un mero strumento di un soggetto pubblico, come se ne fosse un ufficio; e ciò non solo perché ciò sarebbe in contrasto con la natura stessa della fondazione, che nella stabilità nei fini e nella capacità di una propria amministrazione vede i tratti peculiari, ma anche per ragioni più pratiche: ove infatti le fondazioni rimangano eccessivamente dipendenti da esigenze di governo, trovano difficoltà a conseguire la partecipazione di soggetti privati, che si rivelano comprensibilmente ritrosi ad imbarcarsi durevolmente in organizzazioni eccessivamente attente ad esigenze, pressioni e pratiche relazionali proprie dell’area pubblica.
Insomma, la stabilità degli indirizzi statutari e la amministrazione in proprio rendono la fondazione di partecipazione un’interessante e funzionale soluzione organizzativa se riesce a non farsi troppo condizionare dall’indirizzo politico-amministrativo degli enti pubblici che vi partecipano, e dal suo mutamento periodico. Approccio, in verità, che non muta di segno se fondatore sia un’impresa, o una altra organizzazione assoggettata a variabilità strategica.
Naturalmente, nel variegato mondo delle fondazioni di partecipazione si registrano anche molte incertezze, e qualche segnale decisamente pericoloso, come il meccanismo dell’alimentazione finanziaria, innanzitutto, che non è garantita nella formula partecipativa da robuste dotazioni capaci di rendite adeguate, e che espone la fondazione a rischi di instabilità nel tempo, ad una eccessiva dipendenza da eventuali soggetti esterni e dalla volubilità dei loro sostegni (sponsorizzazioni, donazioni, contributi pubblici, liberalità varie), che incide anche sulla capacità di programmazione.
Le incertezze dipendono invece soprattutto dalla ancora labile sistemazione della disciplina giuridica del fenomeno, che appare particolarmente bisognosa di attente riflessioni almeno su due fronti: il rischio di confondere le relazioni che si instaurano nelle fondazioni di partecipazione con quelle proprie dei casi di collaborazione contrattuale, in cui si comprano beni o servizi sul mercato, si gestiscono interessi commutativi, c’è scambio, profitto e vantaggio esclusivo per qualcuno; ed in secondo luogo il trattamento fiscale e tributario, estremamente complesso e soggetto ad interpretazioni che possono profondamente mutare l’assetto finanziario e la capacità di spesa di questi enti.
Non è detto che tutto ciò, ed altro ancora che richiederebbe ordinamento giuridico, abbia bisogno di apposite disposizioni normative; la duttilità dell’autonomia privata e la consapevole contemplazione dei principi – giuridici e costituzionali – implicati potrebbero essere sufficienti a fornire alla riflessione dottrinaria, alla pratica degli uffici amministrativi e alla giurisprudenza elementi per un assestamento che non irrigidisca eccessivamente la notevole capacità innovativa di questi modelli, rischio sempre in agguato, invece, dietro ad una normazione specifica e valevole indifferentemente per tutti.
Un’ultima notazione riguarda l’annoso tema nord/sud, che il nostro Paese non riesce ancora ad affrontare risolutivamente. Se si incrociano i dati qui raccolti, si nota quanta importanza possa oggi avere la presenza in un determinato territorio di una solida fondazione di origine bancaria (o più d’una), e non solo per le ovvie conseguenze della disponibilità di importanti risorse per alcuni settori collettivi della vita associata, ma anche per il sostegno che quelle bancarie sono in grado di fornire alle altre fondazioni, sia in termini di granting che di operating.
La capacità di volano degli investimenti in ambito culturale delle fondazioni bancarie è, appare chiaro, un valore aggiunto per le parti del paese che ne sono dotate, ma è un cultural divide progressivo che rischia di distanziare ancora di più chi sta indietro, in termini forse più strutturali, e dunque più pericolosi, di quanto possa fare la disuguaglianza economica e finanziaria.
❑ Pierpaolo Forte è Professore di Diritto amministrativo dell’Università del Sannio
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