Rampello saluta la Triennale?
Milano. Rampello entra nel Forum delle Culture della Regione Campania. Ed è insoddisfatto del dialogo con la nuova amministrazione locale - come dichiara a Stefano Bucci del Corriere della Sera - alla quale imputa scarsa attenzione al futuro dell’istituzione e un compenso inadeguato di 1.600 euro mensili per un impegno 365gg su 365. In forse la volontà di confermare un impegno che scade a fine anno per una Triennale che ha ri-posizionare nel mondo facendola pensare in grande, anche in tempi di crisi. «La Triennale è stata diversa perché è diventata un luogo di discussione e di mostre, una sede universitaria e un luogo dove mettere in scena Kantor, un ristorante da gourmet e un luogo dove passare la domenica. Ma la Triennale è stata diversa anche per come ha stabilito i rapporti con gli sponsor: non si è mai posta con quell'atteggiamento primitivo di chi chiede e pretende soltanto perché fa cultura».
Una conversazione per il Rapporto Annuale Sponsorizzazioni de «Il Giornale dell’Arte».
Dove siamo, dove stiamo andando e quali possono essere i percorsi per trasformare questo tempo di crisi?
Siamo in un momento di degrado, ossia sotto il grado: non c'è graduazione, non c'è gradualità, ossia sta svanendo la qualità, che è la narrazione delle differenze.
E’ evidente che affinché questo momento di grandissima crisi diventi una grande opportunità è necessario che ci sia la volontà di cambiare. E’ un passo che l'Italia deve fare, politico nel senso più alto della parola: ci deve essere un cambiamento culturale totale. Siamo ancorati al retaggio di un’idea di cultura legata all'esercizio delle arti, a volte delle scienze, che sono linguaggi veloci, straordinari, per ridisegnare in modo diverso il mondo, per reinventarsi; ma oggi dobbiamo avere una visione della cultura che faccia riferimento alla matrice della parola stessa, al «colere», al coltivare. Un concetto della cultura che consideri tutte le attività creative dell'uomo come fonte di cultura. Non dimentichiamo che colere vuol dire coltivare e incolere vuol dire abitare: se vogliamo rifondare questa nostra società, per poter «abitare» questo Paese meraviglioso in un modo diverso, dobbiamo rifondare un ampio concetto di cultura. Del resto, questa era la grande visione dell’Umanesimo e del Rinascimento. Oggi, come allora, dobbiamo rimettere l'uomo al centro e considerare la sua attività tutta come grandissimo stimolo e opportunità di cultura: dallo sport alla musica, dall’economia alle arti visive, dal commercio alla scienza.
Come traguardare l’attuale carenza di risorse economiche?
La crisi è in primo luogo di visione. Prima vengono le idee e i progetti, poi i denari. Come si può fare una mostra sull'arte contemporanea e non raccontare ciò che accade intorno? Non viviamo in mondi separati, ma interconnessi. Chi ha visione apre, allarga, inventa, progetta, dà libero corso alla fantasia. Ariosto è andato sulla luna, per riprendere il senno, ben prima dello sbarco. Chi condivide questo atteggiamento deve legarsi. La mostra sull'arte povera nasce con questi presupposti: due anni fa abbiamo avviato un percorso e, nonostante la crisi, abbiamo mantenuto fede al progetto. Otto istituzioni. E siamo riusciti dove nessuno era arrivato.
Quale ruolo agisce la Triennale?
La Triennale, profondamente legata al contemporaneo, oggi è un luogo di rappresentazione di tutti i temi, dal sociale alla formazione, dall’arte alla scienza, interdisciplinare e transdisciplinare. Le imprese che vogliono riflettere su se stesse, sulla propria storia, sulla propria produzione, per affrontare nuove sfide, si trovano di casa. Dobbiamo (chi si occupa di archivi, come di pinacoteche) acquisire una sensibilità nuova nel presentare al pubblico una narrazione, superando la mera lettura formale o estetica. Una sensibilità analoga a quella degli archeologi, che attraverso l’oggetto, parlano della società.
Un’importante mobilitazione di senso e anche di metodo. Nelle ultime mostre ha coinvolto una pluralità di imprese. Qual è il percorso che compie quando incontra un'impresa e soprattutto che cosa porta l’impresa a produrre una mostra?
Il dialogo che nasce con l’impresa é di valorizzazione del contatto culturale che essa ha sulla società. La mostra «Borsalino e il cinema» è stata una meravigliosa opportunità per rivedere gli usi del cappello, un viaggio nei costumi dell'uomo, attraverso pagine formidabili del cinema. La mostra dei 25 anni di Class sul lusso ci ha impegnati con il curatore, Italo Rota, tra gli architetti più colti che io conosca, in una riflessione durata un anno e mezzo. Questo è ragionare sulle cose, questa è l'opportunità dell'impresa. Per noi il dialogo con l’impresa è fondamentale per non avere estremismi, segregazioni, esclusioni. Nel museo ho istituito un team di «marketing strategico» con Gianluca Winkler per elaborare questo concetto ed estenderlo il più possibile. Dopo la grande mostra su Andy Warhol e quindi la riflessione sulla cultura pop, abbiamo organizzato una mostra per i vent'anni di «Striscia la Notizia». Resistere in modo arrogante, per timore di contaminazioni, sui concetti di cultura alta e di cultura bassa è una perdita di opportunità di aprire nuove frontiere. Sto preparando una nuova mostra con Germano Celant, che esula dall’arte visiva. Da uomo intelligente ha detto «non c'è niente che non interessi, tutto mi interessa».
Come raggiunge 550.000 ingressi?
Il visitatore, il cittadino, l'ospite, debbono trovare nel museo un luogo del benessere fisico, intellettuale e spirituale. La libreria, il ristorante, non sono servizi, sono offerte culturali al pari delle mostre o dei concerti. Non c'è nessuna differenza. Vale la qualità dell'offerta.
Cosa si può fare, partendo dall'alto?
Cambiare.
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