Pollock all’Opificio
Firenze. All’inizio di dicembre in una stessa stanza dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze si interviene sia sull’«Adorazione dei Magi» di Leonardo da Vinci, sia su «Alchemy» di Jackson Pollock.
La presenza dell’importante opera della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia è il risultato di una lunga collaborazione tra il museo veneziano, l’istituto di restauro toscano e diverse istituzioni statunitensi detentrici di opere di Pollock a cominciare dal Guggenheim Museum di New York. L’iniziativa ha origine da Venezia e non è un caso: «Alla collezione Guggenheim appartengono 12 opere (una delle quali su carta), la metà di quelle che furono esposte nel 1950 nella grande mostra del Museo Correr di Venezia che fece conoscere Pollock a livello europeo», precisa il direttore Philip Rylands. Si tratta di opere particolarmente importanti anche perché rappresentative del passaggio dal figurativo, ancora persistente in «Donna Luna» del 1942, alla tecnica del dripping di «Alchemy» realizzata nello studio di Long Island nel 1947. A oltre sessant’anni dalla loro realizzazione, i lavori di Pollock necessitavano di un intervento conservativo. Da qui la prima fase dell’operazione: lo scorso giugno, grazie al laboratorio mobile Molab, sono state eseguite sul posto indagini diagnostiche su tutti gli undici dipinti. «Il Molab è un’eccellenza italiana, sostiene Luciano Pensabene Buemi, conservatore della collezione Guggenheim. Il primato italiano nel campo del restauro è fuori discussione, ma allo stesso tempo era essenziale un confronto con le altre istituzioni statunitensi».
Il confronto è avvenuto a giugno a Venezia con «uno scambio essenziale di idee circa le tecniche e i protocolli nell’intervento» ha dichiarato Carol Stringari, conservatore capo del Guggenheim di New York. Con queste premesse, da quale degli undici dipinti iniziare il restauro vero e proprio?
La scelta è avvenuta nell’ambito di un simposio tenutosi presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York lo scorso 10 ottobre ed è caduta su «Alchemy» del 1947, l’opera in cui per la prima volta Pollock ricorse al dripping. «È l’opera più complessa, spiega Pensabene, per la compresenza di materiali diversi: stringhe, sassolini, sabbia, smalto in un impasto denso con grumi di pittura, schizzi e sgocciolamenti. È anche quella che presenta più problemi conservativi per la polvere che si è depositata negli interstizi». «È una complessa superficie pittorica che richiede un intervento di pulitura molto delicato» conferma Stringari. A Pensabene con la collaborazione di Stringari è affidata la direzione dei lavori.
Infine l’ultimo atto: il trasferimento all’Opificio delle Pietre Dure, «l’unico tra l’altro, sottolinea ancora Pensabene, a possedere una lastra per raggi x della dimensione di “Alchemy” per un ulteriore approfondimento delle indagini preliminari all’intervento vero e proprio». La scelta dell’Opificio è motivata anche dal fatto che la direzione dell’attuale soprintendente Marco Ciatti è molto aperta nei confronti del Novecento. Nel 2011, ha organizzato un master sul restauro del contemporaneo e lo stesso Pensabene vi ha tenuto seminari in proposito. «Questa è però la prima volta, afferma Ciatti, che si effettua un restauro di un’opera così impegnativa come “Alchemy” di Pollock. Aprirsi al contemporaneo rientra nella tradizione dell’Opificio fin dalla sua istituzione nel 1588. Quanto alla metodologia di intervento, io ritengo che non differisca molto per un’opera d’arte antica o moderna, a cominciare dal primo atto di conoscenza, quello relativo ai materiali».
da Il Giornale dell'Arte numero 337, dicembre 2013