Perfino dei Beni culturali, pur di essere ministro...
Roma. Sarà l’ennesimo Governo a-culturale, incurante dei fatti dell’arte e del paesaggio? Una volta ancora il disinteresse privato palesato dalla classe politica nostrana nei confronto degli svaghi culturali (mostre, musei, teatro, opera...) si riverberà nell’azione di governo da loro perseguita? Il Ministero per i Beni culturali potrà nuovamente aspirare a una guida forte e determinata, e non essere più considerato una «sede vacante» come accaduto (ancora una volta, ma chi se lo aspettava?) durante il Governo dei «tecnici»?
La nomina di Francesco Rutelli nel 2006 è stata l’ultima occasione in cui i Beni culturali hanno istituzionalmente assunto un ruolo centrale nella politica di un Governo della Repubblica. Allora, il fatto che Rutelli assommasse su di sè, eccezionalmente, la carica di ministro per i Beni culturali e quella di viceprimo ministro di Prodi lasciava spazio a qualche legittima speranza. Andata in gran parte delusa. Per riconoscere una qualche centralità politica al Mibac bisogna allora tornare alla grande visibilità mediatica di cui aveva goduto, dieci anni prima, il Ministero retto da Walter Veltroni (anch’egli ministro e, insieme, e vicepremier), capace di concentrare (anche grazie a un grande sforzo di comunicazione) l’attenzione pubblica sui temi della cultura. E in parte anche all’azione del successore Giovanna Melandri, firmataria del Testo Unico dei Beni culturali. Al confronto con il panorama attuale, forse merita un recupero (a posteriori) anche Giuliano Urbani, il ministro del governo Berlusconi II cui è intitolato il Codice («Urbani», appunto) per i Beni culturali e il Paesaggio. Un po’ di risultati di qua (centrosinistra), un po’ di là (centrodestra, pochi). Certo è che l’ultimo ventennio di amministrazione del settore non può in alcun modo essere letto in modo meno che critico. Anzi: il bilancio economico del Ministero è ulteriormente calato (fino all’irrisorio 0,11% del Pil), il personale numericamente ridotto e anagraficamente invecchiato, molti problemi tuttora irrisolti, persino tra quelli che si sono via via ritrovati al centro dell’attenzione pubblica e politica, da Pompei alla Grande Brera.
Ma è la «Cultura» tutta, da tempo, a essere decisamente uscita dall’azione governativa e dai luoghi del confronto politico. È una delega assai poco ambita e considerata. Fanalino di coda del governo Berlusconi III (con Rocco Buttiglione dirottato in un ruolo indesiderato e per cui non è stato all’altezza) e Berlusconi IV (Sandro Bondi lungamente assente dal Ministero, Giancarlo Galan accorso infine a sostituirlo), la cultura è stata la grande assente, ingiustificata, della recente campagna elettorale (cfr. n. 327, gen. ’13, p. 1). Fuori dall’«agenda Monti» dopo essere stata dolorosamente (e in qualche misura inaspettatamente) trascurata dall’azione del suo Governo, invisibile nei programmi di partito (all’ultimo posto nell’opuscolo «L’Italia giusta - Bersani 2013»...). Nessuna specifica indicazione, vaghe dichiarazioni e proclami di principio, il comparto è sempre più ridotto a un refrain apparentemente condiviso da destra e sinistra: la crisi economica costringe ad altre priorità, la cultura ha bisogno del sostegno dei privati. Stop, o quasi.
Perché allora non pensare all’abolizione dello stesso Ministero, istituito nel 1974 dal Governo Moro IV come Ministero per i Beni culturali e ambientali, prima di essere ribattezzato «per i Beni e le Attività culturali» nel 1998 dal governo Prodi I? Non è certo un’ipotesi nuova: più o meno illustri politici, politologi e intellettuali hanno negli anni avanzato proposte di accorpamento di deleghe. Di recente, si deve a Ernesto Galli della Loggia e a Roberto Esposito la proposta di far nascere un «vero Ministero della Cultura», per far fronte alla «crisi d’identità» in cui è caduta l’Italia (cfr. articolo a p. 1 e in questa pagina). A seconda che il centro dell’interesse sia la tutela dell’ambiente, la valorizzazione dei beni in chiave turistica, il sostegno ai (vecchi e nuovi) posti di lavoro del settore, le ipotesi possono essere innumerevoli e altamente suggestive. Perché non pensare a un nuovo Ministero della Cultura e del Turismo? Oppure per Cultura, Ambiente e Infrastrutture? O ancora (oggi che, evidentemente, il tema condiviso è di far sì che la cultura «renda» e, prima ancora, sia «economicamente sostenibile»), sarebbe uno scandalo affidare i Beni culturali direttamente al Ministero dell’Economia e del Tesoro?
Ma se è vero che a ben pochi interessano, i Beni culturali difficilmente si meriteranno in Parlamento un dibattito tale da portare a una reale ridefinizione del sistema. Accontentiamoci di avere un ministro che voglia davvero pesare nel prossimo Consiglio dei ministri, che abbia la forza di elaborare, difendere e, se possibile, imporre una visione definita del sistema statale dei beni culturali.
Chi sarà allora il nuovo ministro? Quali i nomi proposti dai partiti e dalle coalizioni? Per ora nessuna indicazione è stata data (a conferma che la questione interessa ben poco), e certo molto dipenderà delle alchimie delle alleanze e della successiva assegnazione dei ruoli chiave nel prossimo Governo. Nella coalizione di centrosinistra si conosce una sola disponibilità, quella di Nichi Vendola, e nulla più. Il ridotto peso politico della Lista Monti dopo le elezioni non gioca a favore di Ilaria Borletti Buitoni, l’ex presidente del Fai. Sul fonte opposto, nel Pdl, nonostante di cultura finora si sia parlato ben poco, il nome di Vittorio Sgarbi continuerà probabilmente a trovare i suoi sostenitori. Se prevarrà l’idea di chiamare, ancora, un tecnico (ma un tecnico «vero», questa volta), allora i nomi in pista sono numerosi e assai diversi tra loro per formazione, orientamento, proposte. Salvatore Settis, in primis. L’ex direttore della Scuola Normale di Pisa, ex Getty Center, ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, è da anni un ministro «in pectore» (ombra?), graditissimo in certi ambienti dei beni culturali nazionali e anche nei sondaggi tra i nostri lettori (primo nel 2011 di fronte a Philippe Daverio e Antonio Paolucci; cfr. n. 308, apr. ’11, p. 7). Di analoga statura e profilo è Andrea Carandini, successore proprio di Settis al Consiglio superiore, archeologo di fama. Entrambi, forti delle proprie battaglie per la tutela del paesaggio e della centralità della cultura nel Sistema Paese, non sarebbero certo sgraditi né a un governo di centrosinistra né a uno, eventuale, di «unità nazionale». O, ancora, figure dal lungo impegno nel campo, come Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia e vicino al presidente Napolitano; Giovanni Puglisi, presidente della Fondazione Sicilia e della Commissione italiana Unesco, oltre che rettore dell’Università Iulm; Fabio Roversi-Monaco, che lascerà il mese prossimo, dopo 12 anni di successi, la guida della Fondazione Carisbo (cfr. articolo a p. 10); o Gabriella Belli, creatrice e direttrice del Mart, ora alla guida della Fondazione Musei Civici veneziani. Tanti e di alto profilo. Ma chissà se il ruolo di ministro è oggi per loro più appetibile degli attuali incarichi...