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Non saremo più erogatori supplenti, ma veri partner

  • Pubblicato il: 27/05/2011 - 07:08
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Catterina Seia
Luca Remmert

Dottor Remmert, la vostra è una delle fondazioni più rilevanti d’Italia e non solo per entità
del patrimonio e delle erogazioni, ma partiamo da questi.
Il patrimonio, composto per circa il 50% dalla partecipazione in Intesa-Sanpaolo, si aggira intorno ai 6 miliardi. Con una prudente politica di accantonamenti, abbiamo mantenuto un andamento che definirei costante delle erogazioni nel corso degli anni, a prescindere dai dividendi della Banca conferitaria. Parlo di circa 130 milioni di euro annui, nei campi della ricerca scientifica ed economica, delle politiche sociali, dell’arte e della cultura.

La crisi vi ha costretti a rivedere la distribuzione tra i diversi settori?
Le fondazioni stanno facendo un grande sforzo a favore del disagio sociale, conseguenza della pesante crisi economica. Parlo come Compagnia di San Paolo, ma penso di poter dire che tutto il «sistema Acri», cioè le fondazioni nel loro complesso, ha previsto una redistribuzione delle sue risorse aumentando la quota destinata alla politiche sociali. La Compagnia ha cercato di evitare che la scelta fosse «troppo punitiva» per gli altri settori. Faccio l’esempio della ricerca e della formazione; in una fase di crisi è essenziale mantenerne il sostegno, perché solo così il sistema sarà in grado di cogliere la ripresa quando arriverà.

Adottate metodi e criteri diversi dalle altre fondazioni?
Stiamo cambiando il modo di erogare e gli strumenti a cui si fa ricorso. Abbiamo avviato una fase di profonda riorganizzazione per poterci muovere e agire come un Gruppo, termine atipico per il mondo delle fondazioni. L’ analisi dei progetti è effettuata da personale con competenze specializzate che ha la responsabilità di seguirne lo sviluppo e la coerenza nella realizzazione. Stiamo lentamente assumendo una funzione di guida o compartecipazione già nella fase di ideazione, diventando partner veri e propri dei vari progetti. Non è un percorso semplice e richiede impegno e partecipazione. Significa peraltro fare cultura della filantropia imponendo chiare e precise regole. Questa a mio avviso dovrebbe essere una priorità per le fondazioni. Cerchiamo poi di ricorrere sempre più frequentemente allo strumento dei bandi, uno dei più efficaci per organizzare la domanda nei tempi e nei modi e per farla crescere in qualità e quantità, effettuare comparazioni, orientando così al meglio la nostra politica erogativa.

Bandi territoriali/distrettuali, interdisciplinari, tematici, un’ampia gamma di possibilità. Un’altra specificità sono i vostri numerosi enti strumentali.
Sono soggetti terzi, alcuni dei quali fondati e finanziati totalmente da noi, altri con altre istituzioni quali Politecnico o Università, con la caratteristica di ambiti operativi ben definiti, strutture organizzative snelle e mirate competenze. Presentano annualmente un piano strategico, ovviamente coerente con gli indirizzi della Compagnia, programma e budget e ricevono i fondi per la realizzazione.

Un esempio concreto?
Abbiamo parlato di politiche sociali, quindi è naturale riferirsi all’Ufficio Pio, un ente strumentale che è sul territorio da sempre: ha una grande capacità di fronteggiare emergenze o imprevisti. Opera attraverso una rete di «delegati» che intercettano i bisogni immediati, la zona grigia di povertà, le nuove vulnerabilità, ovvero la fascia di popolazione che rifiuta la condizione di bisogno diventando così la più difficile da sostenere. L’attività degli enti strumentali ha un riferimento nelle Aree istituzionali della Compagnia che, nel caso dell’Ufficio Pio, è quella delle politiche sociali.

Questo metodo, che coniuga progettualità e interventi, anche nell’emergenza, vale quindi per tutti i settori? Considera il vostro ruolo supplettivo o sussidiario, rispetto al pubblico?
La domanda è complessa. È innegabile che oggi agiamo con un ruolo troppo spesso di supplenza, ma questa è la realtà con la quale ci dobbiamo confrontare. Lavoriamo comunque guardando al futuro e allo sviluppo. Le faccio l’esempio delle imprese sociali che un domani potreb- bero rappresentare una risorsa per l’intero sistema economico. Oppure pensiamo alla Sanità e proviamo a ragionare sulla ricerca di nuovi modelli di gestione. In quel settore, in passato ci si è occupati soprattutto della parte scientifica, ma per questa le grandezze sono tali da rendere il contributo delle fondazioni poca cosa rispetto ai bisogni. Sappiamo perfettamente che non è possibile abdicare il ruolo supplettivo, meno che mai in una fase di crisi, ma è nostro dovere cercare la sussidiarietà. Entrare in quella logica però significa superare l’immagine della fondazione quale finanziatore finale di un processo, come risposta a una domanda.

Un esempio concreto?
Siamo usciti dal tradizionale rapporto con l’Università, ovvero finanziare progetti di ricerca e borse di studio, e siamo entrati in un’ottica di convenzione, condividendo processo e obiettivi.

E per la cultura?
Ho sempre vissuto un certo disagio verso alcuni interlocutori istituzionali su questo tema. Le città, ad esempio, che propongono progetti culturali già definiti, per i quali viene fatto un budget e, solitamente, viene chiesto alle fondazioni di saldare l’eccedenza rispetto alla disponibilità. Questo approccio deve cambiare. Siamo un soggetto importante non solo per la capacità erogativa. Abbiamo accumulato esperienze e competenze che sarebbe un reato sprecare.

Ci sono poi eccezioni?
Sarebbe da irresponsabili girare repentinamente pagina, respingendo idee o urgenze. Ma l’indirizzo è segnato. E ha già molti riscontri operativi. Due esempi pratici. «Torino Danza» e «MiTo» sono due casi di successo rispetto ai quali abbiamo avuto un ruolo nella fase progettuale e organizzativa, che ci viene ampiamente riconosciuto. Per non parlare di Artissima. L’obiettivo è uscire dalle segrete stanze e confrontarsi con i territori, con i bisogni reali, con le esigenze concrete: crescere in un territorio che cresce, con un reciproco effetto volano.

Avete investito nei processi di valutazione e nella programmazione?
Valutare le singole operazioni significa anche apprendere per orientare meglio le azioni ed essere sempre più efficaci. Se un’operazione, una proposta, un progetto evidenziano dei limiti, devono essere cambiati. E prima si fa meno sprechi si registrano. Chi richiede fondi dovrebbe essere il primo a capirlo. Abbiamo capacità di programmare e di seguire una linea strategica a volte superiore degli enti deputati a farlo. Un esempio per tutti: la Compagnia, a partire dagli anni novanta ha investito oltre 100 milioni di euro per la riqualificazione del centro storico di Torino, secondo un fil rouge ora evidente a tutti: il Programma musei, le riqualificazioni dei palazzi nobiliari, il Progetto Chiese, rappresentano una mole di interventi visibile.

A febbraio avete annunciato un accordo con il Mibac con rilevanti interventi strutturali sul patrimonio storico da rifunzionalizzare e collocare in un sistema coerente di valorizzazione culturale territoriale.
L’accordo siglato per la Galleria Sabauda e per il Castello di Moncalieri esprime pienamente il senso di una politica culturale concertata. La Galleria Sabauda è un tesoro di valore inestimabile e la Compagnia ritiene un onore garantirne la piena fruibilità, obiettivo di tutti gli interventi. A Moncalieri, verranno recuperati gli appartamenti reali, il parco e le pertinenze architettoniche del Castello. La struttura verrà destinata in parte a ospitare il Centro nazionale del Libro.

Investimenti importanti: per la Galleria Sabauda un vostro impegno di 17 milioni di euro sui 35 necessari. A bordo Mibac con dieci, Arcus otto e due dai fondi lotto per restauro opere. Per il Centro del Libro, tre milioni, ovvero la metà dei necessari.
Ma per le fondazioni, enti privati che operano nell’interesse comune e con finalità collettive, operare in autonomia è facile?
L’autonomia è un connotato delle persone. E le persone alle quali oggi sono affidate le fondazioni, e l’Acri in primis, lo sono di certo. Il nostro sistema la difende ricordando a se stesso e agli altri di essere ente privato. Con tutti gli oneri e gli onori che da ciò derivano. È indispensabile il raccordo con la politica, ma abbiamo la responsabilità dei patrimoni che ci sono stati affidati e della distribuzione intelligente, trasparente, onesta e coraggiosa dei frutti che questi patrimoni producono. Anche in forza di questa autonomia, le fondazioni hanno rappresentato un elemento di stabilità per il sistema finanziario e bancario italiano. Un aspetto centrale per il valore indiretto per le economie dei nostri territori.

A proposito di banca, quali sono le relazioni con Intesa San Paolo?
Viviamo il nostro ruolo di azionista nel pieno e assoluto rispetto degli organi e del management della banca. La capacità di fare sistema fra banca e fondazioni, e quindi di incidere sul territorio è senza dubbio una responsabilità congiunta.

In questa crisi come vede il futuro della Regione?
Credo che il momento critico possa trasformarsi in una grande opportunità. Siamo indotti a fare cambiamenti radicali. Il modello Torino, che ha dato grandi risultati nel passato, deve evolversi. Il mondo è cambiato, si è concluso un ciclo, anche se Torino non può dimenticare il suo DNA industriale. Il grande tema di cui dobbiamo farci carico è la formazione, senza dimenticare arte e cultura. Dobbiamo riuscire a far diventare questo Paese nuovamente attrattivo per i giovani e i talenti, al di là della promessa di stipendi più alti: un modello di città eteroculturale, con politiche sociali mirate. Il disagio giovanile è forte anche perché mancano prospettive: l’idea di futuro che si propone è decisiva.

Da questa conversazione emerge l’energia di rinnovamento e l’opportunità di capitalizzazione di forti competenze forti costruite nel tempo. Le fondazioni però continuano a essere considerate delle oligarchie: perché?
Sono macchine complicate. Per questa ragione molte hanno nel proprio statuto dei processi graduali di rinnovamento dei diversi organi sociali, per avere ricambio e nel contempo garantire stabilità. La continuità è utile come lo è un certo cambiamento. La Compagnia ha avviato un percorso che dovrebbe portarla a superare questa immagine. Aggiungo che forse un contributo potrebbe arrivare da una maggiore interazione tra le fondazioni di un territorio e fra queste e gli enti locali.

Quali le questioni aperte per il futuro?
È fondamentale realizzare lo statuto europeo delle fondazioni, per un quadro normativo e fiscale che sia comune e quindi più efficace. La mia indole da imprenditore mi spinge poi a lottare affinché la macchina operativa cerchi l’efficienza e l’innovazione; anche nelle fondazioni, mettendoci in discussione proprio come fa quotidianamente ogni buon imprenditore. E personaggi, come il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, sono un riferimento.

Luca Remmert imprenditore, con alle spalle un lungo impegno negli organi della Camera di Commercio, UniCredit e Fondazione CRT, è Vicepresidente della Compagnia di San Paolo

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(X Rapporto Annuale Fondazioni)