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Musei e territorio: uscire dal doppio vincolo

  • Pubblicato il: 15/09/2015 - 12:51
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi

SPECIALE MUSEI. Le prospettive di marketing forse apribili con una gestione aggressiva e isolata dei musei di eccellenza sono un antidoto illusorio alla decadenza, implicita nella resilienza passiva dello Stato di fronte a un patrimonio immenso e disperso. Occorrono nuove regole di ingaggio, per uscire dalla falsa alternativa e far dedicare al territorio nel suo insieme le nuove risorse umane immesse nella vecchia macchina
 
 
 
 
Bateson descrive il «doppio vincolo» come una situazione contestuale che impone regole contradditorie, alle quali insieme è impossibile rispondere, a meno di un’invenzione creativa, prodotto di una mente evoluta (1969). Cita come esperienza una focena ammaestrata che come sempre viene indotta ad esibirsi con giravolte e, improvvisamente, non viene più premiata dopo un certo passaggio. La focena prova e riprova con le modalità consuete, e viene frustrata, ma alla quarta volta fa una serie di capriole del tutto innovative e poi si presenta come a dire: allora volevi che io cambiassi le regole!!
Insomma il doppio vincolo spinge la mente evoluta a inventare, a innovare.
Nella Repubblica di Focenia, il ministro del MIBACT Focenaschini si esibisce in una difficilissima prova: innovare le modalità di gestione del sistema museale, in un paese che vanta alcuni musei d’eccellenza mondiale e centinaia di altri musei e beni culturali, che nell’insieme documentano una storia e un’arte «che tutto il mondo invidia».
Il Ministro capisce immediatamente che il contesto in cui agisce è quello tipico del doppio vincolo.
 
Da una parte infatti è evidente l’esigenza di rinforzare la potenza organizzativa, comunicativa e gestionale dei musei, che sono per lo più ancora allestiti con criteri ottocenteschi, inadatti a far fronte a grandi numeri di visitatori, spesso «ingenui» e da accompagnare alla comprensione di capolavori complessi e ricchi di sfaccettature.
Questa condizione generalizzata diventa impressionante nei musei statali più importanti, per lo più gestiti da funzionari del ministero non specializzati. Le modalità organizzative per lo più continuano la tradizione secolare che concepisce il museo come conservatoria più che come esposizione, con personale più dedito alla custodia che alla presentazione, con pochi o nulli investimenti per nuove sistemazioni e apparti comunicativi tecnologicamente à la page.
Infatti anche il bilancio economico dei musei statali è in attivo solo in rari casi, quando invece ci sono esempi di raccolte private o di altri enti che seguono il modello dei grandi musei stranieri, ormai pienamente sostenibili con gestioni aggressive fatte di grandi mostre, di ricco merchandising, di efficiente sistema di bigliettazione, di stimolante promozione pubblicitaria.
 
Dall’altra parte bisogna tener conto del territorio, quell’insieme che attrae, che nella maggior parte dei casi motiva il viaggio, che rende il Paese famoso ben al di là dei musei. E’ un sistema ricchissimo fatto dalle città d’arte, dai paesaggi, dalle grandi architetture isolate, dai beni immateriali, dalla miriade di luoghi plasmati dalle competenze artistiche diffuse in 2000 anni.
Ma la gestione culturale del territorio che il Ministro si trova di fronte è tutta orientata alla tutela. L’impegno del ministero conta solo su competenze di funzionari che hanno dedicato la vita ad arginare le malefatte dei processi urbanizzativi, delle trasformazioni industriali e infrastrutturali prepotenti e maldestre, del degrado che attanaglia monumenti abbandonati e privi di manutenzione. I funzionari sono pochi, isolati e senza confronti, sempre meno quelli davvero competenti, e combattono ogni giorno con procedure burocratiche poco efficaci e con una grande disparità di mezzi rispetto alla marea di controlli e monitoraggi che devono affrontare. Nei rari interventi il criterio di valorizzazione affianca quello di tutela solo da pochi anni, ed è guardato con sospetto da molti dei tecnici più attenti, visto che in esperienze poco riuscite ha funzionato come cavallo di Troia per veicolare sconcezze e abusi.
 
Il ministro sa che è urgente agire, ma sa di essere di fronte ad un doppio vincolo: le condizioni del contesto nel suo insieme non sono risolvibili con le regole già conosciute per gestire ciascuna delle sue parti.
In sintesi, se impostasse una strategia per lanciare i musei nazionali più importanti al pari di quelli delle capitali culturali del mondo, probabilmente otterrebbe di portare onorevolmente una mezza dozzina di eccellenze al top della classifica dei più visitati, dei più conosciuti, forse dei più in attivo.  
Si tratterebbe di uno sforzo incisivo, perché il cambiamento da introdurre nei modelli di gestione è rivoluzionario: occorrono competenze manageriali, capacità organizzative e poteri per esercitarle. Sono risorse non facili da reperire all’interno del ministero. Si dovrebbe ricorrere ad una selezione importante, che non guardi in faccia nessuno di quelli che sono in carriera tradizionalmente, che innovi i criteri e i modi stessi di scelta.
Il ministro sa che si tratta di un passaggio rischioso, che si può applicare solo a pochi casi circoscritti, perché innesca automaticamente una resilienza del corpus dei funzionari, che naturalmente tenderà ad isolare le parti innovative, come fanno i globuli bianchi con un agente estraneo.
Sa che, al rischio oggettivo di separare i musei d’eccellenza dal territorio, si aggiunge il rischio soggettivo di una ripulsa dei nuovi modelli gestionali da parte del resto, abituato ai modelli tradizionali. Ad esempio sa che si soffrirà inevitabilmente la separazione dei musei statali di serie A da tutti gli altri. Sa che si svilupperà un mugugno incontrollabile non solo tra i dirigenti ma anche tra il resto degli addetti ai lavori, tra quelli «innovanti» e quelli «conservanti».
 
E poi: come gestire il territorio? Come non riconoscere, avendo tra le competenze del ministero anche il turismo, che il territorio è la vera risorsa sottoutilizzata del paese? Come fare ad innescare un processo di valorizzazione che non parta solo da una dozzina di musei ma interessi soprattutto i beni culturali diffusi? Che tratteggi uno stile di presentazione del paese attraverso la sua storia e la sua arte, che entusiasmi anche i sindaci di paese, le fondazioni locali, i tesoretti conservati nei luoghi più appartati?
Come, più operativamente, coinvolgere l’intero ministero, con i suoi assortiti e affaticati uffici periferici in un processo innovativo generale, senza perdere (anzi rendendo più efficiente) il controllo ma promuovendo anche la buona pratica, l’ente locale attivo, il formicaio operoso del volontariato?
Se il territorio continua ad essere gestito come da tradizione, con risorse, umane e finanziarie, ancora assottigliate dall’avvio dell’operazione «musei d’eccellenza», l’intero sistema è a rischio, a partire dai beni più diffusi e difficili da mantenere: il paesaggio in primis.
 
Il ministro, dopo un sudatissimo semestre di confronto interno ed esterno, è uscito d’impeto dal doppio vincolo.
Ha scelto una ventina di musei adatti e ha selezionato i migliori operatori sulla piazza. Ma non gli ha chiesto di competere con gli altri musei, di paesi privi di territorio culturale importante, bensì gli ha assegnato nuove regole di ingaggio.
Ha detto: il criterio gestionale principale del museo deve essere quello di innescare processi di sviluppo locale fondati sull’uso corretto delle risorse culturali non solo e non tanto presenti nel museo, quanto diffuse nel territorio. L’obiettivo del nuovo museo è una riorganizzazione dell’offerta culturale degli ambiti territoriali in cui è inserito: dove è il caso il museo fa da rompighiaccio per il nuovo progetto, negli altri casi si propone in posizione di servizio e di «hub» organizzativo.
I nuovi direttori sono scelti perché competenti in particolare nella gestione delle risorse, in primis umane, capaci di una gestione collegiale di progetti complessi e integrati. Una normativa specifica li pone in ruolo di coordinatori di progetto del team formato dagli altri funzionari pubblici, statali e non, e del III settore.
 
Questo il ministro di Focenia. E da noi?
 
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Paolo Castelnovi, esperto in analisi e progettazione del paesaggio, docente di progettazione urbanistica e pianificazione paesistica al Politecnico di Torino fino al 2010. Coordinatore o consulente per il paesaggio nei piani paesistici e territoriali della Valle d'Aosta, del Piemonte, delle province di Trento, di Venezia, di Napoli, di Corona Verde di Torino, di piani di aree protette (Colli Euganei, Monti Sibillini, Cilento e Vallo di Diano, Monte Beigua), progettista di parchi urbani.