L'otium come una delle belle arti
Padova. A molti il nome di Pietro Bembo riporta alla mente reminiscenze storico-letterarie in parte sopite: le disquisizioni in forma dialogica sul tema amoroso degli Asolani, le Prose della Volgar Lingua, che conferiscono al volgare del Petrarca e del Boccaccio la dignità di modello linguistico per la produzione letteraria coeva o, ancora, le Rime, improntate sulla lirica petrarchesca. Ma forse ai più sarà sfuggito che Bembo (Venezia, 1470 - Roma, 1547), votato per indole agli studi umanistici e non alla carriera diplomatica del padre, dedito all’otium letterarium nel clima mondano delle corti cinquecentesche ed ecclesiastico non immune alle passioni amorose, fu detentore d’una collezione che, documentata nei manoscritti del veneziano Marcantonio Michiel, nella sua eterogeneità diventa specchio d’un’epoca.
Dal 2 febbraio al 19 maggio a Palazzo Monte di Pietà la mostra «Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento», promossa dalla Fondazione Cariparo e dal Centro internazionale di studi Andrea Palladio (Cisa), riunisce ciò che l’intellettuale a partire dagli anni Venti del Cinquecento in parte eredita e in parte comincia a raccogliere nella sua dimora patavina, a cui si aggiungono esemplari unici, opere e manufatti che concorrono a completare il quadro espositivo. La vicenda biografica s’intreccia così con la storia dell’architettura, dell’arte e dell’editoria, il culto dell’antico, la produzione letteraria del tempo: Poliziano, Baldassarre Castiglione e Ariosto.
Guido Beltramini, direttore del Cisa, illustrandoci la rassegna, prefigura «una serie d’incontri con oggetti straordinari»; una mostra sull’origine del Rinascimento «d’altissima temperatura figurativa» che rifugge l’impostazione documentaria.
«Tutto è partito dallo studio di quella che nel Cinquecento era la casa di Pietro Bembo a Padova(oggi sede del Museo della Terza Armata, Ndr), un tipo di residenza ispirata al mondo antico con delle caratteristiche peculiari, prosegue Beltramini. Da lì ho cominciato a ragionare sulla collezione che vi era contenuta: non tanto quella di un esteta quanto quella di uno studioso che raccoglie oggetti come “griglia” per capire il mondo in cui egli si trova. Bembo metteva insieme opere d’arte a monete verso le quali provava un fascino che definiva “sensuale”, oggetti che utilizzava come fonti prime di conoscenza del mondo antico, per interesse quindi filologico. Questa collezione è come una tac del cervello di Bembo. Su questo ho cominciato a lavorare con Davide Gasparotto, Adolfo Tura e con un gruppo di studiosi guidati da Howard Burns, presidente del consiglio scientifico del nostro Istituto. L’idea era cercare di comprendere l’interazione nel Cinquecento fra un letterato e il mondo dell’arte. La codificazione degli ordini architettonici comincia nella Roma di Raffaello e di Leone X in parallelo con le Prose di Bembo: la sete di regole a cui Bembo dà una forma strutturata creando le norme per l’italiano ha un influsso sull’arte? La lingua dell’architettura s’intreccia con lo studio letterario della lingua di Bembo? A queste domande si aggiunga il fatto che Bembo per primo intuisce il formarsi nella Roma di Leone X di una nuova maniera, quella moderna; un nuovo modo di fare arte basato sull’antico che è al tempo stesso una lingua artistica priva d’inflessioni regionali. È singolare che nel proemio alle Prose Bembo affermi: noi dobbiamo fare come gli artisti che vengono a Roma e studiano le grandi architetture antiche per costruire una nuova lingua».
Come viene restituita l’eterogeneità del materiale in mostra?
L’esposizione è strutturata secondo due spine dorsali: una è la ricostruzione della collezione come anima di chi la possedeva (in parte Bembo la eredita dal padre, in parte l’amplia, è un problema filologico complesso ma esclusa la «Presentazione al tempio» del Mantegna di Berlino che non viaggia, siamo riusciti, credo, ad avere tutti i pezzi conosciuti); l’altra è il racconto della vita di Pietro. La mostra ha quindi un taglio cronologico: si comincia con i due Memling che il padre di Pietro compra a Bruges (oggi all’Alte Pinakothek di Monaco e alla National Gallery of Art di Washington, Ndr), accostati alla copia delle Commedie di Terenzio postillata autografa da Poliziano a casa dei Bembo. Si prosegue attraverso la Venezia di Aldo Manuzio, di Bellini e di Giorgione. Il «Ritratto d’uomo con il libro verde» (dal Fine Arts Museums of San Francisco), che Alessandro Ballarin attribuisce a Giorgione, è opera rappresentativa dell’innovazione dell’enchiridion, il libro tascabile messo a punto da Manuzio e Bembo che porta il piccolo formato nella vita di tutti i giorni. Inoltre Ballarin vede un parallelismo tra la pittura dell’anima di Giorgione e l’intimità degli Asolani: abbiamo dunque scelto di portare anche il «Doppio ritratto» (Roma, Museo Nazionale di Palazzo di Venezia) nel quale sempre il Ballarin identifica Perottino e Lavinello. Altra figura chiave è Giovanni Bellini, di cui presentiamo per la prima volta in Italia la «Madonna Dudley» e il «Ritratto di Gabriele Dalla Volta» (entrambi da collezione privata). Nella seconda sezione, per far comprendere come il Bembo transiti attraverso il mondo delle corti (Ferrara, Urbino e Mantova), abbiamo tentato di ricostruire la temperie pittorica del tempo, ciò che Bembo vedeva in quel momento: Elisabetta Gonzaga ritratta da Raffaello (Firenze, Uffizi), il «Francesco Maria della Rovere giovinetto» sempre del Giorgione (Vienna, Kunsthistorisches Museum) e ancora il Perugino, Il Francia, Il Costa... Da Vienna abbiamo anche ottenuto una favolosa lira da braccio (unico esemplare rimasto d’inizio cinquecento) affiancata a un’edizione di strambotti della Biblioteca Vaticana e dedicati a Elisabetta d’Este.
Momento chiave nella vita dell’intellettuale è l’arrivo nella Roma di Leone X, del quale Pietro diviene segretario nel 1513.
Per evocare la Roma di Leone X siamo riusciti ad avere uno dei grandi arazzi della Cappella Sistina su disegno di Raffaello (la «Conversione di san Paolo»). Rubato durante il Sacco di Roma, riscattato da Isabella d’Este, trafugato dalla nave che lo stava portando a Mantova per mano di pirati berberi, finisce a Tunisi. Lì viene comprato da un mercante veneziano che lo vende poi a un Venier nel cui palazzo veneziano Bembo avrà poi modo di vederlo. Successivamente, nel 1539, Bembo diventa Cardinale e si avvicina al gruppo degli spirituali come Vittoria Colonna: ecco dunque in mostra il disegno del Cristo Crocifisso di Michelangelo (dal British Museum) che l’artista dona a Vittoria affinché vi preghi davanti. In Vaticano abbiamo poi trovato un meraviglioso codice manoscritto in pergamena bianchissima: le poesie che la Colonna dona a Michelangelo in risposta al Cristo. Mai accostamento fu così inedito. Riassumendo l’intero percorso: la giovinezza, le corti, la Roma di Leone X, la collezione, Bembo Cardinale e poi chiudiamo con il Busto del Bembo stesso (di Danese Cattaneo) e una serie di lavori di Sansovino e Ammannati. Ciò di cui andiamo fieri è che ne è risultata una mostra multi-object.
Produrre mostre simili al giorno d’oggi è a suo avviso un dovere o una sfida?
Penso che le mostre siano sempre una sfida, soprattutto se punto d’arrivo d’un progetto di ricerca come questo durato quattro anni. La sfida vera è comunicare nel modo giusto al pubblico più ampio possibile contenuti nuovi. Questo è anche il nostro dovere. A tutti i visitatori sarà dato un mp3 con cui ascoltare il racconto dei curatori. Sarà una serie d’incontri con oggetti straordinari in cui abbiamo cercato di tenere altissima la temperatura figurativa.
La sezione «Documenti» di «Il Giornale dell'Arte» di febbraio, in edicola, è dedicata alla raccolta d'arte del cardinale Pietro Bembo.