La cultura in trasformazione
Un confronto con il sociologo Bertram Niessen, fondatore di Che-Fare, uno dei protagonisti del convegno nazionale “Filantropia è Cultura. Cultura e rigenerazione economico-sociale, oggi”, che il Giornale delle Fondazioni ha organizzato con Assifero - l’associazione che riunisce gli enti della filantropia istituzionale, per venerdì 25 maggio a Roma, in occasione dell’Assemblea annuale dei soci, per la prima volta dedicata al tema. Il mondo della Cultura, dopo la grande crisi, ha avviato una trasformazione genetica, partendo dal basso, con soggetti e reti nutrite “da un capitale di competenze senza precedenti e da biografie professionali che passano spesso per percorsi accademici nazionali ed internazionali (..) con un legame con i territori in cui operano che li porta ad essere attivatori o stakeholder di processi coesione sociale (…) con un costante coinvolgimento nei processi di rigenerazione urbana (..).Tutto allo stesso tempo e con sempre meno fondi”. Ma per essere culturalmente e socialmente rilevanti c’è ancora moltissima strada da fare. Niessen indica alcune prospettive politiche, imprenditive, di sostenibilità, di reti. E soprattutto, in un quadro magmatico occorre ricerca associata a “un lavoro diffuso e capillare su tutto quello che gira attorno: pubblicazioni, dibattiti, libri, produzioni. Insomma, sviluppare un nuovo lavoro culturale".
Guardando gli ultimi dieci anni, il mondo della Cultura in Italia sembra aver in corso una trasformazione genetica. Nuove organizzazioni e nuovi linguaggi sembrano aver cambiato, almeno in parte, le regole del gioco nel rapporto tra pubblici, istituzioni e cultura. Cosa sta succedendo?
A partire dai primi anni ’10 in Italia sono proliferate organizzazioni culturali che operano su presupposti progettuali e strategici radicalmente nuovi.
Le ragioni sono diverse, ma le possiamo genericamente possiamo ricondurre alla costruzione di nuove finestre di opportunità (politica, sociale, economia, generazionale) in un contesto nazionale che è generalmente sclerotizzato e spesso restio - se non esplicitamente ostile - a far emergere qualcosa di nuovo. In termini pratici, possiamo dire che le forme più consolidate del potere nel settore dell’industria culturale e della ricerca hanno reagito al taglio delle risorse imposto dalla crisi economica con forme squisitamente baronali di protezione del proprio ruolo nelle istituzioni.
Un numero crescente di soggetti che sono stati lasciati fuori dai percorsi tradizionali ha iniziato ad autorganizzarsi, proponendo progettualità culturali diverse e, spesso, già in linea con le grandi trasformazioni socio-economiche del contemporaneo. Da qui sono nate molte forme diverse di attivismo culturale, che di volta in volta si esprimono attraverso strumenti anche molto diversi tra loro. E’ un ecosistema di cui abbiamo iniziato a delineare i tratti culturali con il libro “La cultura in trasformazione”, uscito nel 2016 per MinimumFax.
Quali sono le istituzioni che hanno sostenuto lo sviluppo di questi mondi?
Una parte importante di questo mondo si è auto-organizzato e auto-sostenuto; non è un caso che la sua nascita abbia coinciso con il boom delle piattaforme di crowdfunding.
A partire dal 2012 una serie di bandi della filantropia istituzionale hanno fatto emergere queste realtà: tra questi, FUnder35 (Acri), cheFare (dell’omonima associazione), iC-InnovazioneCulturale (di Fondazione Cariplo), Open e Ora! (di Compagnia di San Paolo), Culturability (di Fondazione Unipolis). Alcune amministrazioni locali hanno fatto un lavoro importante in questo senso (Torino, Bologna e Milano, solo per citarne alcune), Di questo nuovo ecosistema ibrido fanno parte migliaia di organizzazioni e decine di migliaia di persone, sia nelle grandi città che nelle zone rurali e nelle aree interne, al Nord come al Sud.
Di quali organizzazioni stiamo parlando? Che tipo? Quante?
Si tratta di realtà che sfuggono alle distinzioni classiche, tra comitati, associazioni culturali, associazioni di secondo livello ed imprese, muovendosi agilmente tra terzo settore, imprenditoria giovanile, sperimentazione artistica e tecnologica.
Ci sono però alcune caratteristiche che ricorrono.
Innanzitutto una diversa consapevolezza della sostenibilità economica della progettualità culturale; il che non significa necessariamente essere “imprenditori culturali” o pensare di poter fare a meno dei finanziamenti pubblici e privati alla cultura (anzi), quanto essere in grado di pensare la propria parabola di produttori culturali con strategie chiare organizzate nel tempo.
Conta moltissimo l’essere immersi in reti di relazioni trasversali con pubblici dinamici (online ed offline) e stakeholder su livelli molto diversi. La gestione di queste reti è nutrita da un capitale di competenze senza precedenti e da biografie professionali che passano spesso per percorsi accademici nazionali ed internazionali.
Un altro elemento fondamentale è un legame con i territori in cui operano che li porta ad essere attivatori o stakeholder di processi coesione sociale; un elemento, questo, che spiega il loro costante coinvolgimento nei processi di rigenerazione urbana.
Per provare a dare un’idea dei numeri, il data base Open Data per la Cultura 2017 sono raccolti oltre 3300 progetti presentati in 9 edizioni di 4 bandi, spesso da cordate di soggetti diversi; ma si tratta solo di una parte di un mondo molto più grande ed articolato.
Tutto rose e fiori, quindi?
Decisamente no, c’è ancora moltissima strada da fare. Nel tentativo di rimediare alla cronica mancanza di visione in termini di sostenibilità e di competenze di project management in molti settori culturali, in questi anni molte nuove organizzazioni hanno investito nella costruzione di skill economico-manageriali a discapito di quelle culturali. Se non si può non sapere come compilare un business plan, non si può neanche scriverlo prevedendo che i curatori e gli artisti lavorino gratis.
Questa criticità si innesta su in un certo fraintendimento - tutto ideologico - del rapporto tra imprenditorialità ed imprenditivita’. Per alcuni anni si è sostenuto che tutte le nuove organizzazioni dovessero essere start up che trovano la loro sostenibilità economica solo sul mercato. È il caso di pochissimi. Ha molto più senso pensare le nuove organizzazioni culturali come partner del pubblico che vivono di un funding mix articolato e consapevole. Credo che il dibattito che si è sviluppato su il Giornale delle Fondazioni a partire dalla riflessione di Carola Carazzone, segretario generale Assifero a proposito del finanziamento a progettualità vs. il finanziamento alle organizzazioni vada nella stessa direzione.
Per certi versi succede qualcosa di simile con altri due grandi temi nei quali la Cultura è chiamata in causa: rigenerazione urbana e coesione sociale. Sempre più spesso, alle organizzazioni culturali viene richiesto di essere coesive, socialmente utili, urbanisticamente rigenerative, imprenditoriali, culturalmente rilevanti. Tutto allo stesso tempo e con sempre meno fondi.
Il rischio è ottenere progetti carini, ben comunicati, buoni per tutte le stagioni e culturalmente irrilevanti.
Quale tipologia di politiche e misure si possono costruire a supporto di questo contesto?
Innanzitutto occorre molta più ricerca. Al momento, il quadro del contesto è ancora troppo confuso, sia dal punto di vista dei dati nudi e crudo che delle loro interpretazioni. Va, quindi, finanziata in modo importante la ricerca.
C’è poi bisogno di un ragionamento su come sviluppare misure più situate che si ispirino in modo intelligente ad altri modelli senza copiarli pedissequamente.
Dal punto di vista locale, è cruciale un lavoro di dettaglio sui territori per costruire tavoli di lavoro multistakeholder, così come un lavoro mirato sulle competenze sia dei nuovi soggetti che di quelli più tradizionali che con questi si vogliono relazionare.
In questo senso, considerando che ormai siamo di fronte ad un ecosistema, è importante iniziare a pensare allo sviluppo di misure differenziate per soggetti a stadi di sviluppo diversi, dalla prima idea all’internazionalizzazione. Allo stesso modo, c’è bisogno di sviluppare strumenti di finanziamento flessibili in grado di rivolgersi di volta in volta a progettualità specifiche o alla sostenibili complessiva delle organizzazioni.
Per quello che riguarda l’intersezione con i processi di rigenerazione urbana, è fondamentale trovare delle soluzioni che stimolino la progettazione culturale di qualità, prestando attenzione sia alla produzione che alla distribuzione (due dimensioni troppo spesso confuse). Dopo una prima fase in cui si è guardato soprattutto alla rigenerazione spaziale di edifici e quartieri, oggi è importante ragionare soprattutto nei termini della sostenibilità culturale delle iniziative nei termini dei costi reali di ricerca e curatela.
Infine, è essenziale portare avanti un lavoro diffuso e capillare su tutto quello che gira attorno: pubblicazioni, dibattiti, libri, produzioni. Insomma, sviluppare un nuovo lavoro culturale.
Bertram Niessen, fondatore di Che-Fare