INNOVAZIONE SUL FILO DEI MILLENNI: INTERVISTA A GRECO (MUSEO EGIZIO) E FELICORI (REGGIA CASERTA)
Un museo non è per sempre. A meno che non si ricordi di essere struttura viva, organica, destinata a una continua mutazione attraverso il lavoro dei suoi ricercatori e a un dialogo sempre più stretto con il territorio, i cittadini, i partner, gli studiosi, i visitatori. Sono queste le conclusioni che emergono dalla lunga chiacchierata che Open Magazine ha fatto con Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, e Mauro Felicori, direttore della Reggia di Caserta. Due realtà culturali tra le più importanti sul territorio italiano e tra le più visitate anche dai turisti stranieri; due luoghi che – nel Nord come nel Sud Italia – conservano e mettono in movimento uno straordinario patrimonio storico, artistico e architettonico. E che, anche grazie alla capacità di vivere sul filo dell'innovazione, hanno chiuso un buon 2017 sul fronte dei numeri: 845.237 visitatori per il museo torinese (sostanzialmente stabili rispetto al 2016), 835.654 mila per la reggia casertana (in crescita di oltre il 20% rispetto all'anno precedente). Rispettivamente all'ottavo e al nono posto della Top 10 nazionale.
Da Open Magazine del 24 gennaio 2018
Dalla gestione dell'ordinario alla visione dello straordinario
«Dirigere una realtà come la Reggia comporta il gestire una complessità di cose», racconta Mauro Felicori, che elenca le linee guida adottate dal suo insediamento a Caserta, nell'ottobre del 2015. «Primo, abbiamo iniziato a liberare la Reggia di tutte le funzioni improprie, che non siano culturali ed educative. Penso, per esempio, agli spazi che stiamo recuperando dall'Aeronautica e dall'Esercito. Secondo, c'è la fase dei restauri: rifare il tetto, dare una sede definitiva alla collezione Terrae Motus, rimettere a posto il parco abbandonato da vent'anni. Terzo, dedicarsi alla gestione ordinaria, a cominciare da una revisione di tutte le concessioni scadute: biglietteria, servizi didattici, bookshop, bar. Quando sono entrato, c'era talmente tanta polvere in giro che mi è venuto il sospetto che anche quella fosse vincolata e non si potesse toccare». Al quarto posto, arriva la voce più innovativa: «trasformare la Reggia da museo di cose a palazzo vivo, catalizzatore di esperienze ed emozioni. Danze, cori, concerti e merende borboniche, magari con qualche esperimento nelle nuove tecnologie di comunicazione museale».
Al Museo Egizio di Torino, i reperti provengono da un'epoca molto più antica ma la polvere è già stata eliminata da tempo, con il nuovo allestimento presentato nella primavera del 2015. «Per i lavori di restauro sono stati investiti 50 milioni di euro, di cui 25 milioni da parte di Compagnia di San Paolo. Adesso la mentalità deve essere quella di continuare a investire nella ricerca, ponendola al centro della vita del museo: paradossalmente, è più facile ottenere 2 milioni di euro per restaurare un muro che 30mila euro per dare una borsa di studio a un ricercatore», avverte Greco. L'obiettivo è in un certo senso una rivoluzione copernicana, soprattutto in Italia. «I musei sono una produzione culturale del nostro tempo: nel 1970 in Europa erano circa 18mila, oggi sono più di 48mila. Ma bisogna cambiare completamente la percezione del museo. Nel caso dell'Egizio, questo significa riuscire a comunicare la doppia valenza della sua collezione: da un lato, sono oggetti che ci narrano di una civiltà lontana; dall'altro, sono manufatti che non hanno mai cessato di esistere, ma che entrano in relazione con Torino, l'Italia, l'Europa, il mondo. Noi vogliamo far parlare la nostra collezione, renderla protagonista di un dialogo che si sviluppi nel presente».
L'antichità, la tecnologia, il contemporaneo.
«Non ci basta avere una collezione di arte contemporanea importante come Terrae Motus», spiega Felicori. «Vogliamo che intorno ci sia un'attività continua e che la Reggia diventi una fabbrica dell'arte. Anche con il contributo di imprenditori culturali esterni, assimilando le loro proposte e i loro progetti, esplorando orizzonti tecnologici contemporanei. Un esempio? La mostra multimediale su Klimt». La tecnologia, sì, ma con giudizio. Christian Greco mette dei paletti piuttosto chiari. «I musei stanno correndo troppo dietro all'illusione digitale, alle app senza un vero significato, al mito dell'edutainment. Credo che la tecnologia non debba essere usata per una mera spettacolarizzazione, ma per dare un valore aggiunto alla ricerca. Se io con una foto ultravioletta riesco a vedere sotto un sarcofago un livello dipinto che altrimenti non potrei vedere, ecco, quella è una tecnologia che mi ha dato un'informazione in più su un oggetto. Per questo credo che il Museo Egizio non debba essere troppo digitale, aggiornando e aggiungendo però quello che ancora manca: per esempio, stiamo rinnovando il sito e a breve, finalmente, dovremmo lanciare una rivista scientifica online».
ll rapporto con il contemporaneo e la sperimentazione di eventi in rottura rispetto al linguaggio e alle atmosfere dominanti del luogo, richiamano inevitabili polemiche. Due sono le accuse più comuni: «sacrilegio» culturale ed eccesso di commercializzazione. A Torino, per esempio, le immagini di una serata di fitness ospitata lo scorso ottobre al Museo Egizio hanno attirato molte critiche. «Quella non era una nostra iniziativa e la polemica è stata molto strumentalizzata», risponde Greco. «Erano dei privati che ci hanno chiesto di fare un'attività, sulla base di un'iniziativa della Regione per coinvolgere i luoghi della cultura nella sensibilizzazione contro le malattie cardiovascolari. Io ho tracciato limiti molto severi: si è potuto fare solo dopo la chiusura, si è usato quasi esclusivamente il cortile, finendo con gli ultimi venti minuti in una sala in cui non c'è materiale organico, solo pietre, niente legni. Una sala che, tra l'altro, grazie al Museo è climatizzata e che d'estate accoglie molte più persone. Ecco, chi si è indignato di fronte al sudore dei partecipanti, mi piacerebbe che avesse scritto che fino a tre anni fa in quella stessa sala c'erano quaranta gradi d'estate e la gente sveniva. Altro che sudore».
Fitness a parte, negli ultimi mesi il Museo Egizio ha ospitato concerti jazz, serate riservate ai fotografi di Instagram, iniziative con i Lego per i più piccoli. «L'ispirazione dei Lego è arrivata dal museo del Cairo, dove nel 2002 venne aperta una sezione per ragazzi con le repliche di alcuni capolavori rifatti con i Lego. È un'iniziativa molto bella perché porta i ragazzi a mettersi alla prova in laboratori, usando oggetti che sono materiali e non virtuali. In quanto alle altre esperienze artistiche, quello è uno dei tanti modi per far dialogare le nostre opere: lasciare che ispirino la creatività degli artisti».
«Noi siamo ben contenti di organizzare eventi che ricreino fedelmente l'atmosfera del luogo nella sua epoca d'oro: dai balli borbonici alle cene con il menù della corte di Ferdinando IV», racconta Felicori. «Sono appuntamenti, spesso in costume, che richiamano centinaia di persone da tutta Italia. Ma va benissimo anche uscire da quel perimetro storico, non voglio inchiodarmi al '700. Come ho detto, il rapporto con il contemporaneo ci interessa molto. Anche nei suoi intrecci più imprevedibili: nella vasca del parco abbiamo organizzato una versione della regata Oxford-Cambridge, abbiamo accolto le coloratissime strutture di plastica della cracking art, sarei anche pronto ad allestire un concerto di musica sperimentale. Anche se, confesso, tendo a preferire le assonanze alle dissonanze, le coerenze alle cacofonie».
Anche a Caserta, però, qualche polemica per l'uso non ortodosso degli spazi non è mancato. «Siamo abituati alle polemiche», risponde Felicori. «Periodicamente veniamo accusati di esagerare con il marketing, quasi sempre facendo riferimento alla riforma Franceschini (quella nel cui ambito Mauro Felicori è diventato direttore della Reggia di Caserta nel 2015, NdR). «Basta fare le cose con equilibrio. Io non ho alcun problema a ospitare una sfilata d'auto d'epoca nel cortile della Reggia. Basta che non sia in orario di apertura e che non danneggi in alcun modo i visitatori».
«Noi direttori di musei viviamo una situazione un po' paradossale», aggiunge Greco. «Ci viene detto di non essere troppo commerciali, di non lasciarci prendere dall'ansia e poi l'unico indicatore utilizzato per valutare il nostro lavoro è il numero dei visitatori a fine anno. Si passa da affermazioni come “con la cultura non si mangia” ad altre, completamente opposte, che la definiscono come un moderno “giacimento di petrolio”. Un paragone non solo brutto, ma pure sbagliato: il giacimento è qualcosa che è destinato a estinguersi. In più, spesso ci vengono indicati esempi internazionali come il Louvre che apre una nuova struttura ad Abu Dhabi. Ma abbiamo presente quanti milioni di euro vengono investiti – molti dei quali pubblici – ogni anno nel Louvre? Tutti dovrebbero rendersi conto che il bene culturale può anche diventare redditizio, ma solo se si investe nella ricerca».
Comunità, territorio, partnership
A inizio 2018 il Museo Egizio di Torino è stato lambito da una nuova polemica, legata a una campagna promozionale rivolta al comunità arabofona della città. La nostra intervista risale alle settimane precedenti, ma comprende anche questo progetto: già avviato e parte di una riflessione più ampia sui modi di rinnovare e reinventare il rapporto tra istituzione, comunità e territorio. «Non dobbiamo dimenticare che noi non avremmo la meravigliosa collezione del Museo senza il gentile dono dell'Egitto», spiega Greco. «Io vorrei che questa fosse la più grande ambasciata egiziana del mondo e vorrei che le persone che vivono a Torino e provengono dal Nord Africa si riconoscessero in questa cultura materiale. Per questo stiamo cercando di creare un rapporto stabile con loro: sia attraverso una campagna realizzata con un'agenzia specializzata in comunicazione etnica (Etnocom), sia permettendo alle persone che parlano arabo di entrare in due pagando un unico in biglietto, sia organizzando iniziative per le periferie o celebrando al Museo Egizio la giornata del rifugiato, il 24 giugno scorso. Lavoriamo con l'associazionismo, i centri d'accoglienza e nel progetto "La comunità nordafricana racconta il Museo Egizio", realizzato nell'ambito del bando Open di Compagnia di San Paolo, abbiamo formato alcune donne che hanno realizzato un libretto che vorrei distribuire nel nostro bookshop». La reinvenzione del rapporto con la comunità, dunque, intesa con un senso di inclusione rivolta a tutti i volti della nuova Torino.
Alla Reggia il terreno di gioco è diverso. E, da un certo punto di vista, si parte da una situazione più complessa. A fine 2017, Caserta è stata relegata all'ultimo posto della classifica della vivibilità nelle province italiane compilata ogni anno dal quotidiano Il Sole 24 Ore. «Non è una novità, l'anno precedente eravamo già quart'ultimi», commenta Felicori. Ma la Reggia come può contribuire al rilancio del territorio? «Lo stiamo già facendo, da due anni gli alberghi della zona stanno registrando una crescita regolare. Qui però si entra in un tema, quello del turismo, dove ci sarebbe tantissimo da fare. A cominciare dall'accessibilità: i collegamenti con Napoli non sono buoni, quelli con Roma non sono frequenti, la promozione della regione non esiste. Gli eventi vengono annunciati con appena due settimane d'anticipo, mentre bisognerebbe comunicarli un anno prima. Bisognerebbe costruire prodotti turistici, rivedere le filiere, venire incontro ai turisti. E creare sinergie. La provincia di Caserta ha un grosso problema di sovrappopolazione, concentrato però nella sua piana. Andando verso il crinale appenninico, il paesaggio diventa meraviglioso. E questo vale per tutta la Campania interna. Si potrebbero creare percorsi turistici unici».
Da poco rientrata nella rete delle residenze reali europee, la Reggia di Caserta ha firmato un protocollo di collaborazione con l'Ermitage di San Pietroburgo, che porterà in Campania una mostra sulla vita di corte nel Palazzo d'Inverno. «Ma l'elenco delle partnership cresce continuamente. Penso ai rapporti con Intesa San Paolo: hanno fatto una grande mostra a Napoli sul pittore dell'Ottocento Salvatore Fergola e metà dei quadri erano nostri. Un altro direttore forse ci avrebbe pensato due volte prima di prestarli, io al contrario l'ho vista come una grande opportunità. Intesa San Paolo è un soggetto amico e infatti ci presterà in comodato d'uso La morte di Pilade Bronzetti a Castel Morrone di Luigi Toro, un quadro per noi fondamentale perché raffigura un episodio significativo di un'importante battaglia tra borbonici e garibaldini. Io però in generale non sono un fan del concetto di partnership. Mi muovo nello spirito della più assoluta sussidiarietà: preferisco aiutare qualcuno a far qualcosa da noi. Ci mettiamo volentieri in secondo piano. Credo che rispecchi il senso dell'amministrazione pubblica: aiutare gli altri a fare e gli imprenditori a investire, offrendo spazi magniloquenti».
«Conquistare ogni giorno il proprio diritto a esistere»
«Se l'arte dedica più attenzione alle persone, le persone ne dedicheranno di più all'arte». Nella recente intervista pubblicata su Open, Philip Cave di Arts Council England sottolinea un aspetto fondamentale nell'approccio di una moderna istituzione culturale. «Philippe De Montebello del Metropolitan Museum of Art di New York sosteneva che nessun museo può avere l'arroganza di pensare di esistere per diritto divino», commenta Greco. «Ogni giorno si deve conquistare il proprio diritto d'esistenza e il modo migliore per farlo è radicarsi nella comunità. Come una scuola, come un'università, come un'istituzione, anche il museo non ha senso se non fa parte della polis, acquisendo un ruolo politico nel senso etimologico del termine. Il Museo Egizio è inserito in una comunità che non è formata solo da egittologi, egittofili e intellettuali: ma da tutti, comprese quelle persone che al Museo non possono venire». A questa esigenza e a questo approccio risponde il progetto «Il museo fuori dal museo», rivolto per esempio ai degenti dell'Ospedale Regina Margherita di Torino, dove i curatori del museo presentano periodicamente copie dei reperti in collezione. «Stiamo lavorando anche con le scuole superiori: due curatrici andranno negli istituti e, in dialogo con gli insegnanti, integreranno la nostra cultura materiale nei programmi scolastici». Superando anche quello che secondo Christian Greco è un problema dei libri di testo italiani: «In Germania, a scuola tutte le esercitazioni e l'apparato iconografico sono legati alla cultura materiale presente nei musei del paese. Proviamo ad aprire un libro scolastico italiano: nella sezione dedicata all'Egitto se va bene troviamo le Piramidi e la maschera di Tutankhamon. Nessuno parla della tomba di Kha, l'unica del Nuovo Regno preservata intatta al di fuori dell'Egitto, con oltre 500 reperti, che si trova da noi a Torino».
Un altro fondamentale obiettivo è riuscire a trasmettere il messaggio che il museo non è un luogo che si visita solo una volta nella vita. «Sono stanco di sentirmi ripetere: “Ah, io il Museo Egizio lo conosco, ci sono stato in quarta elementare”. Dobbiamo abbattere l'idea che il museo sia solo la sommatoria di ciò che contiene nelle vetrine. Il museo è fatto di esseri umani, ricercatori che contribuiscono a cambiargli faccia in continuazione: si aprono nuove gallerie, si allestiscono percorsi espositivi temporanei e – soprattutto – si creano nuove forme di dialogo e incontro con la comunità». Dal punto di vista concreto, esistono anche strumenti che vanno oltre l'organizzazione di eventi e di allestimenti sempre nuovi, per facilitare un ritorno periodico nel luogo della cultura. Per esempio, i biglietti annuali della Reggia di Caserta. «Si tratta di abbonamenti che permettono di tornare più volte alla Reggia», spiega Mauro Felicori. «Sono aperti a tutti, ma chiaramente si rivolgono in modo speciale agli abitanti che vivono nelle aree limitrofe. Da questo punto di vista, l'alta densità demografica dell'area tra Caserta e Napoli è una risorsa. Così come lo è avere a disposizione un parco molto esteso, dove le persone possono rilassarsi e trascorrere qualche ora in un luogo meraviglioso».
Ritorno al futuro
I due esempi riportati di Torino e Caserta riguardano importanti istituzioni culturali del territorio italiano e le interviste sono state condotte cercando di focalizzare il discorso dell'innovazione sulla realtà nazionale, senza cadere nella facile scorciatoia del confronto con le realtà straniere. Oltre confine possiamo però guardare per trovare uno stimolo conclusivo, rivolto al futuro. Non semplicemente quello del giorno dopo. «Se dovessi dire qual è la cosa che invidio di più ai musei stranieri, probabilmente sarebbe la capacità e la possibilità di programmare a lungo termine», spiega Christian Greco. «In Italia siamo angosciati dai risultati immediati. Io ho lavorato molto nei Paesi Bassi e ricordo di aver partecipato a una commissione ministeriale, diversi anni fa, in cui si discuteva su cosa avrebbero dovuto essere i musei olandesi nel 2050. Investire sul patrimonio culturale significa anche definire una visione sul lungo termine. Tracciare una via che va poi percorsa con pazienza, passo dopo passo».