Grande Brera
Da un punto di vista generale l’iniziativa non può che essere considerata positivamente, dopo decenni in cui si parla del patrimonio storico ed artistico del paese come elemento di un ridisegno delle sue prospettive di sviluppo e nel contesto di una Expo in cui – almeno per il momento – la progettazione culturale pare più orientata agli eventi che agli investimenti per il futuro. Detto questo come doverosa premessa è necessario osservare le soluzioni specifiche proposte nel documento: a volte, si sa, il problema si nasconde nei dettagli.
Quali obiettivi si pone il progetto Grande Brera?
Il progetto Brera è caratterizzato da due principali obiettivi: il primo è quello di portare a termine un ambizioso disegno di ristrutturazione logistica e immobiliare, che prevede un riordino infrastrutturale e funzionale del palazzo di Brera e il recupero museale di palazzo Citterio, con il trasferimento dell’Accademia delle Belle Arti nella sede di via Mascheroni. Il secondo, conseguente, è quello di espandere la collocazione delle collezioni in uno spazio più ampio creando un’istituzione culturale ed espositiva che possa essere di riferimento per la città e più in generale per l’Europa. La stasi imbarazzante in cui si è trovato il progetto in questi anni testimonia della necessità di un cambiamento della situazione attuale che deve manifestarsi su due piani: da un lato la disponibilità di fondi per la ristrutturazione e la gestione e dall’altro la presenza di un soggetto capace di combinare un’azione culturale e imprenditoriale di ampio respiro. In questo senso, supponendo di aver identificato i fondi, è sicuramente necessario rafforzare i poteri e le facoltà del soggetto destinato ad attuare il progetto.
E’ opportuno che si preveda la partecipazione degli enti locali e dei privati in questo progetto?
Data la centralità di Brera, la complessità del sistema museale ed espositivo milanese, la dimensione complessiva dei fabbisogni e la ricchezza del tessuto industriale e finanziario della città è addirittura doveroso sviluppare un disegno in cui gli enti locali e i privati abbiano un ruolo rilevante di sostegno e di interlocuzione, sarebbe assurdo il contrario, soprattutto nel contesto attuale di contenimento della spesa pubblica. E’ però fondamentale che l’istituzione culturale mantenga la cultura come obiettivo prioritario (integrità e rispetto della collezione, orientamento alla ricerca oltre che alla valorizzazione), che sia orientata e valutata per la sua capacità di sviluppare pubblico interesse, che sia guidata in modo scientificamente ineccepibile, non solo per ovvi motivi di responsabilità nazionale e internazionale, ma per la necessità che l’istituzione sia riconosciuta e rispettata dalla comunità culturale internazionale con conseguenti reciprocità di progetti e iniziative. Il tutto deve poi accadere in una situazione di trasparenza gestionale, di rendicontazione, e di forte capacità gestionale in modo da soddisfare anche i bisogni dei diversi utenti locali e non.
Tutto questo sembra ovvio ma non lo è. Il rispetto questi principi elementari di ecologia culturale e gestionale si scontra sempre con limiti di budget e di competenza e implica un ripensamento fondamentale e straordinariamente necessario del rapporto tra pubblico e privato nel nostro paese. Questa è l’occasione che il progetto Grande Brera potrebbe, e sottolineo il condizionale, rappresentare.
Una fondazione a cui vengano conferiti in gestione gli immobili e le collezioni statali è lo strumento ideale?
Su questo punto, molto delicato, la risposta richiede un minimo di articolazione. Partiamo con qualche dato sul funzionamento del museo milanese: la pinacoteca di Brera ha avuto 336.981 visitatori nel 2009, con un incasso lordo di 2.606.937 euro, ovvero un incasso medio complessivo a visitatore di 7,7 euro. Come si vede dalla tabella 1 questi risultati collocano Brera tra i primi cinque musei statali italiani. La sua capacità di generare reddito è allineata con gli altri pur vivendo da alcuni anni una situazione di relativa precarietà logistica che ha limitato la presenza di servizi aggiuntivi come ad esempio la caffetteria e reso impraticabile la proposizione di mostre temporanee di grandi dimensioni. Dal punto di vista dei costi il ragionamento è più complesso essendo la pinacoteca immersa nei conti complessivi della Soprintendenza che gestisce anche il Cenacolo. Sulla base dei dati Ministeriali la distribuzione per ruoli del personale appare molto simile a quella del Polo Museale romano (che con 7 musei ha più del doppio del personale), con una forte incidenza degli addetti alla custodia (109 su 163 persone) e una carenza (comune a tutte le soprintendenze italiane) di personale intermedio con competenze tecnologiche e gestionali. Con qualche cautela è possibile stimare che la gestione del museo, così come stanno le cose nella Soprintendenza, senza ulteriori investimenti e interventi sulla struttura di gestione, generi costi per circa 7 milioni annui producendo quindi un deficit strutturale stimato nell’ordine dei 4 milioni. Il suo costo a visitatore, aggirandosi attorno ai 20 euro, si colloca in una fascia media europea.
Data questa situazione gestionale difficile (e resa tale dalle molte riduzioni del contributo ministeriale), ma non disastrosa, l’urgenza oggi è creare un ente capace di portare a termine la ristrutturazione del Palazzo di Brera e di palazzo Citterio attraendo più capitali privati in modo stabile e operando in un regime di maggiore flessibilità gestionale. In questo senso non mi è chiaro perché si sono voluti accelerare i tempi creando un ente che concentri sia la questione logistica che la gestione delle collezioni. Non capisco perché il conferimento in gestione della collezione ( non è un trasferimento di proprietà , ma certamente una scelta forte sul piano dei poteri di utilizzo) dovrebbe offrire migliori garanzie. Il possibile e conseguente trasferimento del personale (seppur non coercitivo), inoltre, apre nel brevissimo termine problemi operativi e negoziali simili a quelli a suo tempo avvenuti per il museo Egizio. Molto tempo e molta energia saranno sottratte ai temi più urgenti di natura finanziaria e logistico urbanistica. Forse sarebbe bastato rafforzare l’associazione Amici di Brera, conferendo ad essa riconoscimento e personalità giuridica - eventualmente anche fondazionale - con la partecipazione del Ministero e degli enti locali, ed attribuendo ad essa l’incarico del progetto di ristrutturazione di rilancio immobiliare e di comunicazione, rimandando a momenti successivi la scelta relativa alle attribuzioni di competenze sulla collezione, ovvero lasciandola in seno alla Soprintendenza.
D’altra parte è invece possibile che la scelta effettuata di concentrare tutte le funzioni in un unico ente risponda alla volontà di usare Brera per lanciare un modello di imprenditorialità culturale (locale e privata) basata sulle risorse pubbliche, radicalizzando un percorso solo parzialmente avviato con le Sovrintendenze Speciali. Osservando i dati di bilancio del Polo museale Fiorentino, che (al netto di una significativa quota sul personale) riceve dallo stato 2.600.000 euro di trasferimenti su un budget di oltre 20 milioni, è possibile immaginare che la scelta sia stata compiuta nell’ipotesi di creare una struttura simile agli Uffizi e capace di un analogo di attrazione, ponendo però un’enfasi ancora maggior sull’autonomia e sulla presenza dei privati, creando un precedente eventualmente estendibile ad altri casi italiani.
C’è bisogno di un simile modello per il rilancio gestionale del patrimonio culturale?
Il problema è che in questo campo non esistono soluzioni semplici e facilmente trasferibili. E’ necessario guardare alle caratteristiche dei beni, ai territori e alle grandi priorità di gestione del patrimonio nazionale.Guardiamo al territorio, naturalmente facendo l’ipotesi che la nuova istituzione sia effettivamente in grado di realizzare il nuovo grande museo. A Milano oggi sono operativi 46 musei per 94.000 metri quadri espositivi che nel 2010 hanno prodotto 441 mostre. L’insieme ha prodotto 3,7 milioni di visitatori, oltre il 55% del totale della regione. Di questi il 3,3 milioni si concentrano sulla zona 1 (centro). Di questi i 2/3 (quasi due milioni) sono registrati da 5 istituzioni (Terrazze del duomo, Cenacolo, Brera, Musei del castello e Museo della Scienza). Altre 9 istituzioni oscillano tra i 100 e i 200 mila visitatori annui e tutte le altre (33 circa) hanno poche migliaia di visitatori annui.
In questo contesto è prioritario – da un punto di vista economico e civile - agire urgentemente per avere più utenti a Brera? E’ una scelta che in apparenza risponde a logiche di razionalità organizzativa: potenziare ciò che può svilupparsi e lasciare sullo sfondo il resto, ma in campo culturale questa razionalità è davvero produttiva? A che tipo di concezione della cultura corrisponde l’idea di rafforzare solo chi può essere forte? Non riduce questo la ricchezza della varietà? Non sarebbe anche interessante agire per migliorare la qualità e far crescere il sistema? E’ necessario concentrare tante risorse su un unico punto del sistema, che opera in un area già frequentata al limite logistico? Ovviamente avere un grande museo di grande impatto comunicazionale a Brera servirà come ulteriore elemento di marketing per la città. Ma forse occorrerebbe incentivare anche gli altri ricchi musei urbani ad un piano di miglioramento dei servizi puntando ad una maggiore integrazione dei palinsesti e della comunicazione. La varietà, se ben gestita, sarebbe una risorsa importante per la metropoli. E’ meno ovvio, più difficile, significherebbe combinare un istituzione efficiente con una istituzione capace di esercitare autorità sul territorio, creare un capofila: una sfida affascinante. Ma questo coordinamento non sarebbe stato uno dei ruoli possibili di una soprintendenza efficiente? Perché allora disfare la soprintendenza per creare un organismo privo di qualifiche di coordinamento territoriale?
Su questo piano il problema locale si congiunge con quelli nazionali. Non ci si può stancare di ripetere che esiste un urgente bisogno di ripensare la struttura complessiva del ministero interrompendo la spirale di degrado organizzativo e di competenze che si è innescata da oltre un decennio a questa parte e ripensando il sistema di rapporto con i privati dato il disastroso andamento delle concessioni basate sui principi della Ronchey. E’ necessario trovare soluzioni che rafforzino sia il privato che lo stato. E’ possibile che davanti alla complessità del compito si possa decidere di optare per la costruzione di pochi poli indipendenti a forte partecipazione privata, sostanzialmente enucleati dal ministero, mirando a costituire forme di imprenditorialità culturale che svolgano (ma come e perché?) funzioni pubbliche di interesse generale e soprattutto servano a processi di sviluppo economico locale (turismo , eventi ecc.). Questa scelta, che potrebbe avere il pregio di una praticabilità parziale di breve termine, apre una serie molto preoccupante di problemi:
· Non risolve il problema del patrimonio diffuso, anzi pone le premesse per il suo ulteriore abbandono separando i grandi attrattori dal loro territorio. Fenomeno già avviato con le Soprintendenze Speciali.
· Apre seri problemi di governo delle istituzioni nelle quali gli enti locali e talvolta i privati vengono ad esercitare poteri superiori ai loro contributi, come è già accaduto nell’esempio piuttosto sciagurato delle fondazioni liriche.
· Non affronta esplicitamente il problema di creare modelli e incentivi capaci di indurre i privati a svolgere azioni di effettiva pubblica responsabilità se non tramite deducibilità fiscali.
· Non innesca miglioramenti nelle competenze del settore pubblico che plausibilmente continuerà il suo degrado rischiando di perdere anche le attuali competenze di controllo.
Questo, è il terreno su cui occorrerebbe fare sperimentazioni controllate, istituzioni gestite privatisticamente ma incentivate e vincolate a ruoli pubblici. Insomma, il progetto Grande Brera potrebbe essere una straordinaria occasione di rilancio del sistema complessivo del patrimonio nel paese o un ulteriore esempio di un suo utilizzo semplicistico e solo apparentemente razionale. Molto dipenderà dai modi in cui il ministero deciderà di implementare il processo. E’ bene quindi che vi sia pubblico dibattito ed elevata attenzione su questo percorso da parte dell’opinione pubblica, ma anche è bene che il dibattito, per una volta, eviti la trappola delle contrapposizioni ideologiche tra stato e mercato.
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