Digitale. Quale impatto sull’accesso e sulla partecipazione culturale?
Esclusi gli automatismi tra innovazione digitale e incremento della partecipazione culturale, si manifestano i primi esiti sulle politiche e sull’organizzazione delle istituzioni culturali che stimolano dialoghi tra discipline e la co-creazione. Ma sul mito della democratizzazione della cultura grazie al digitale, attenzione al guadare il superamento di due criticità che si sommano anziché elidersi sulla stessa fascia di popolazione, la più fragile: il cultural e il digital divide.
Non è evidentemente un caso se il gruppo di lavoro MCA della Commissione Europea abbia individuato per il prossimo biennio la promozione dell’accesso alla cultura attraverso il digitale come uno dei due temi strategici e meritori di approfondimento e condivisione con un gruppo allargato di stakeholder. La madre di tutte le domande che motiva il senso del gruppo di lavoro mi sembra capitale per fornire una cornice di senso e una direzione alle riflessioni che si stanno sviluppando sul punto: qual è l’impatto del digitale sulle politiche di promozione dell’accesso e sulle pratiche delle organizzazioni culturali?
E’ una domanda che più che reclamare risposte definitive sollecita la formulazione di altri e ulteriori quesiti utili a comprendere le molteplici sfaccettature del problema, a partire da una più precisa definizione dei potenziali impatti e dei risultati che si vogliono auspicabilmente conseguire.
Nell’introduzione al gruppo di lavoro MCA si suggerisce, infatti, di riflettere sulle potenzialità del digitale per:
- informare e attrarre il pubblico
- ampliare il pubblico
- diversificare e democratizzare il pubblico
- sviluppare una relazione più significativa e interattiva
- innestare processi di co-creazione per generare coinvolgimento.
Per ciascuno di questi punti è importante che si mettano in campo energie collettive e prospettive cross-disciplinari (provando a far dialogare davvero humanities e science) per avanzare in termini di ricerca, di sperimentazione, di condivisione di buone pratiche, di valutazione alla scala macro degli effetti delle policies e alla scala micro dei cambiamenti organizzativi e istituzionali.
Per alcuni di questi obiettivi già si possono leggere progressi significativi e traiettorie promettenti. E’ indubbio, infatti, che gli ambienti e gli strumenti digitali (da Internet, alle piattaforme di condivisione di contenuti, ai network sociali, ai blog, alle applicazioni mobili, alla digitalizzazione dei contenuti, al digital storytelling e AR, etc.) rappresentino un brodo di coltura formidabile per sperimentare modelli di comunicazione e di promozione in grado di raggiungere comunità, pubblici, nicchie specializzate e di connettere mercati territorialmente, linguisticamente e culturalmente frammentati.
Sono, invece, meno sicuro della capacità del digitale di generare «in automatico» processi di diversificazione del pubblico che vadano nella direzione di una maggiore democratizzazione (sia che la si consideri in termini di democratisation culturelle secondo l’approccio francese, sia in termini di cultural democracy secondo quello anglosassone). I fenomeni del «cultural divide» e del «digital divide», anziché elidersi, potrebbero – in assenza di interventi correttivi - avvitarsi perversamente. Ne conseguirebbe, nel medio periodo, un solco ancora più profondo tra una società di serie A dotata di strumenti cognitivi e culturali e rafforzata dalle opportunità abilitanti del digitale e una fascia di esclusi e di eterni secondi destinati a subire più gli effetti negativi dell’omologazione e dell’eterodirezione che a cogliere le potenzialità derivanti da un più libero e diretto perseguimento di traiettorie di capacitazione e autorealizzazione. Il tutto in un contesto europeo e internazionale in cui i grandi player del mercato globale digitale eserciteranno un’influenza sui meccanismi di accesso, partecipazione e di imposizione di mainstream culturali molto più forte di qualunque politica pubblica. Sicuramente si avranno maggiori possibilità di engagement con e attraverso la cultura; resta da capire se questo possa avvenire salvaguardando il principio di una più equa (re)distribuzione delle opportunità di accesso (sul fronte della domanda) e di condivisione del valore generato tra gli attori della filiera produttiva (sul fronte dell’offerta).
Su questo nodo si gioca sicuramente una delle sfide più complesse e interessanti che le politiche pubbliche (non solo quelle culturali, basti pensare al ruolo della scuola e dell’educazione) dovranno cogliere e su cui è importante individuare un set di obiettivi e di priorità condivise per orientare il senso e la direzione dei programmi, dei progetti e, in ultima battuta, dei mandati istituzionali e dei comportamenti organizzativi individuali.
L’altro tema cruciale è quello del coinvolgimento attraverso nuove modalità relazionali, progettualità crowdsourced e meccaniche di co-creazione con gli utenti. L’approccio partecipativo in senso lato – intendendo quel tipo di comportamento istituzionale e progettuale che asseconda, stimola, coltiva, negozia e adopera, con gradi di intensità diversi, il potenziale creativo ed espressivo e l’intelligenza collettiva del pubblico per co-progettare, co-produrre e co-generare esperienze e processi di natura artistica e culturale - ha trovato nella cultura digitale e nei media sociali un alleato di ferro. Il mondo dei bit può giocare, infatti, un ruolo davvero dirompente se l’effetto connettivo della prossimità relazionale digitale si integra e fornisce ulteriori elementi di ingaggio con le comunità cui si indirizza la progettazione culturale. La dimensione digitale consente, inoltre, possibilità partecipative a intensità differenziata (Davide Beraldo, 2015) che vanno a scardinare la natura tradizionalmente binaria dell’esperienza culturale (partecipo/non partecipo; uso/non uso) fornendo opzioni «incrementali», «differite» o «laterali» di partecipazione e fruizione: dallo streaming, al contest digitale, alla realtà aumentata, al digital storytelling, al social gaming, alle forme più avanzate di arte digitale co-generata dal pubblico, per citare alcune soluzioni.
A livello di singola istituzione, gli effetti più interessanti si producono quando la strategia digitale non viene semplicemente considerata una somma di dispositivi tecnici da innestare a progettazione conclusa, ma rappresenta una dimensione fondativa della progettazione culturale stessa, che deve essere concepita e programmata a monte e non a valle del processo di realizzazione. Già in fase ideativa, infatti, si dovrebbero individuare il tipo di esperienza e le modalità di coinvolgimento del pubblico (ovvero il suo ruolo nella produzione complessiva di senso e il tipo di apporto richiesto nel processo produttivo) e, conseguentemente, anche il tipo di contributo richiesto alla dimensione digitale.
Le implicazioni (e anche le difficoltà) dal punto di vista della visione culturale, delle prassi organizzative, delle logiche curatoriali e del sistema di competenze (vecchie e nuove) sono evidenti soprattutto se si considera che per molte realtà culturali si tratta di un doppio balzo in avanti - direttamente dalla cultura 1.0 a quella 3.0, per usare la terminologia e lo schema logico di Pierluigi Sacco.
Delle potenzialità derivanti da un uso sistemico del digitale e di come impostare una strategia digitale che sia davvero integrata e consustanziale con l’architettura generale del progetto culturale e che consenta di affrontare le sfide più «calde» dell’audience development si parlerà il 21 maggio a Lugano con Jasper Visser – uno dei principali esperti di digital strategy in ambito culturale – in occasione dei Cultural Days del Master in Advanced Studies SUPSI in Cultural Management in collaborazione con Fondazione Fitzcarraldo.
© Riproduzione riservata