Carrà e Longhi, tra Giotto e le bocce
Alba (Cn). Alla mostra «Carlo Carrà 1881-1966», presso la Fondazione Ferrero dal 27 ottobre al 27 gennaio, c’è tutto Carrà, dalla prima opera del 1900 («La strada di casa») all’ultima, realizzata nel 1966 poco prima di morire («Natura morta con bottiglia e chicchera»). In mezzo, altre 75 opere selezionate dalla curatrice della mostra, Maria Cristina Bandera, che ripercorrono nei loro momenti salienti tutte le stagioni della vita e dello stile attraversate da Carrà. Da quella divisionista a quella futurista («Ciò che mi ha detto il tram», 1911, «Ritmi di oggetti», 1911-12), dall’arcaismo di «I Romantici» e di «Ricordi di infanzia», entrambe del 1916, all’adesione alla metafisica dechirichiana con opere del 1917 come «La camera incantata» e «Le muse metafisiche», seguite da «L’ovale delle apparizioni», del ’18. «Pino sul mare» del 1921 e «L’attesa» del ’26 testimoniano la «scoperta» di Giotto e introducono alla stagione novecentista, segnata da opere quali «Nuotatori» del ’29, «Il cancello rosso» del ’30 e «La partita di calcio» del ’34, realizzato per la vittoria dell’Italia ai mondiali di quell’anno.
La mostra è realizzata con la collaborazione della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi di Firenze, diretta dalla stessa Bandera. Tale collaborazione non ha nulla di casuale, come spiega la curatrice: «Fu Longhi ad avvicinare Carrà a Giotto. Si erano conosciuti per la recensione che Longhi fece, nel 1913, per “La Voce”, di una mostra futurista a Roma. Longhi aveva 22 anni, Carrà 32, l’artista era più anziano e molto più noto dello storico dell’arte e fu l’artista a incoraggiare inizialmente lo studioso. Il debito va quindi inizialmente rovesciato. La loro fu l’amicizia di una vita: nel ’37 Longhi scrisse per Hoepli una monografia sul pittore, sulle sue derivazioni dai primitivi, sì, ma a anche da Cézanne, Seurat e il doganiere Rousseau, soffermandosi su ciò che descriveva come “l’infiltrirsi magico degli impasti”».
Che cosa univa il pittore allo studioso?
Le origini, tanto per cominciare. Erano entrambi piemontesi, Longhi di Alba e Carrà di Quargnento, presso Alessandria, e poi, oltre l’amore per l’arte, quello per le bocce: vi giocavano tutte le estati nelle loro case in Versilia, dal 1935 in poi.
Mario Broglio ha scritto che «Carrà ha saputo generare il vero mito plastico della nostra epoca». È vero?
Sì, e ne era convinto pure Longhi. Carrà ebbe anche modo di rispondere a questa affermazione di Broglio, curandogli, alla Biennale di Venezia del 1950, una sala personale omaggio, a due anni dalla morte. Broglio, con la sua casa editrice Valori Plastici aveva pubblicato nel 1924 il saggio di Carrà su Giotto e nel 1927 quello di Longhi su Piero della Francesca. Il cerchio così si chiudeva.
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