Banca d’Italia scende in campo su beni, attività culturali e sviluppo economico
Genova. Anche Banca d’Italia oggi riconosce l’economia generata dalla cultura e dedica per la prima volta una ricerca al settore, esaminando le caratteristiche e modalità di interazione delle attività culturali a contenuto non industriale – patrimonio, arti visive e performative – con il sistema produttivo del Paese, le criticità che ne limitano lo sviluppo e gli interventi necessari al fine di rafforzare la valorizzazione anche economica del settore. «Attività culturali e sviluppo economico: un esame a livello territoriale», la ricerca svolta dalla sede di Genova, analizza, dapprima in termini quantitativi, il perimetro economico del settore e le varie forme di domanda e offerta nel periodo 2000-2007; segue la valutazione della spesa pubblica in cultura e degli assetti normativi e gestionali che regolano il settore sulla base delle interviste in profondità ad un panel di attori del sistema dell’arte.Ne parliamo con gli autori Enrico Beretta e Andrea Migliardi.
Quali le ragioni che vi hanno spinto ad approfondire l’argomento?
Le attività culturali in Italia sono caratterizzate da nodi strutturali che necessitano di azioni di sistema per funzionare meglio. Un’urgenza che si affianca ai vantaggi comparati di cui gode il Paese in tema di cultura, alla rilevanza mediatico-politica della materia e quindi alla necessità di potenziarne lo sviluppo. In quest’ottica la Banca d’Italia per la sua doppia funzione istituzionale di consulenza al Parlamento e al Governo e di informazione economico-statistica al pubblico può offrire un contributo, per di più imparziale.
La definizione del perimetro economico delle attività culturali comporta un’operazione, come ha spesso sottolineato la critica, difficoltosa anche a causa della mancanza di dati statistici riferiti a questo precipuo settore che spesso accorpa le voci «attività culturali e ricreative». Quali limiti avete riscontrato in proposito?
È complesso tracciare i perimetri economici di un settore. Ci siamo affidati ai dati forniti dall’Unione Europea nel 2006 nel rapporto «The economy of culture in Europe» che oltre a fornire dati consolidati consente, attraverso il suo approccio a blocchi – settore core, industrie culturali, industrie creative, industrie correlate - di individuare esattamente le tipologie di attività ivi considerate.
La carenza di dati è una problematica che non riguarda solamente il settore culturale ma, ad esempio, anche quello turistico e la logistica. L’impressione però è che in questo ambito più chiarezza e definizione sul dato sarebbe certamente utile sia in termini generali al fine di condividere i confini del settore e le attività che ne fanno parte, sia in termini particolari quando si vanno ad analizzare le singole imprese e i loro bilanci.
Occorre tenere presente che la quantificazione dell’indotto, dei moltiplicatori comporta un’operazione arbitraria e parziale in quanto i settori considerati sono solo parzialmente correlati e, se vogliamo, c’è un indotto più globale: la crescita del capitale umano che si riverbera su tutta l’attività economica. Non sarebbe allora più ragionevole stare ai dati di dettaglio di cui disponiamo e pensare che comunque lo sviluppo e la gestione efficiente di queste attività ha delle ricadute sul capitale umano e quindi su tutto il sistema economico?
Passando ai contenuti della ricerca, l’analisi del rapporto tra cultura e mercato in Italia pone in evidenza come il potenziale produttivo del settore culturale sia solo in parte espresso.
Quali ragioni vi portano ad affermarlo e quali le possibili cause di questo debole sviluppo?
La stessa Commissione Europea ci racconta che in Italia, nel 2003, il rapporto tra valore aggiunto e fatturato del settore è inferiore rispetto alla media UE a 25 - 36,4 anziché 40,8 - e decisivo è il gap con alcuni paesi quali la Francia il cui valore corrisponde a 68,3. E’ un dato importante in quanto il valore aggiunto indica, rispetto alle risorse impegnate, il livello di nuovo valore che è stato creato. Nel 2007 la spesa delle famiglie in cultura risulta poi inferiore rispetto alla media UE - 6,9% dei consumi totali rispetto al 9% -, scarsamente dinamica nel periodo 2000-2007 e territorialmente differenziata soprattutto per quanto concerne il Mezzogiorno, nonostante la dotazione di attrattori culturali. Sul piano dell’offerta, a fronte di una distribuzione piuttosto uniforme delle risorse culturali, si ritrovano disparità tra le regioni del Paese nell’attirare visitatori e, quindi, nel riverberare sul territorio le ricadute derivanti dalla valorizzazione del patrimonio e nella sostenibilità delle stesse istituzioni. Le criticità che condizionano lo sviluppo sono riconducibili, anche secondo il panel di esperti consultato, a carenze quali-quantitative dei finanziamenti pubblici: oltre all’entità, il problema risiede nel sistema di allocazione e redistribuzione ‘orizzontale’ dei finanziamenti e nell’assenza di strumenti di misurazione e controllo dei livelli di spesa. L’assetto normativo risulta chiaro, ma nella pratica si presentano sovrapposizioni di funzioni tra i diversi organi di governo che presidiano il settore, elemento di ostacolo anche nei rapporti di collaborazione con i privati. In tema di governance pesa l’eccessiva burocratizzazione del sistema, la difficoltà da parte del settore pubblico di instaurare una regia comune di indirizzo nella gestione del patrimonio e la necessità di assicurare la presenza di personale con adeguate competenze scientifiche e gestionali. Gli strumenti giuridici per incentivare il coinvolgimento dei privati in qualità di gestori risultano limitati o deboli, come nel caso delle concessioni dei servizi aggiuntivi ed eccessivamente complessi quelli in materia di erogazioni liberali e sponsorizzazioni; a questo proposito occorre poi prestare particolare attenzione nel presentare progetti scientificamente validi e in grado di autosostenersi.
Tra le varie proposte correttive avanzate al fine di valorizzare anche economicamente il patrimonio del Paese insistete in particolare sul miglioramento del dialogo tra i diversi livelli di governo, tra questi e gli operatori privati e sul rafforzamento del ruolo di regia e controllo degli organi pubblici centrali. Nella vostra opinione, la priorità oggi risiede quindi nel miglioramento dell’efficienza del settore?
Efficienza tra gli operatori pubblici, nel coinvolgimento degli operatori privati, nell’allocazione della spesa pubblica e privata; sono queste le variabili sulle quali oggi è possibile operare. In proposito suggeriamo di istituire ‘cabine di regia’ regionali tra Sovrintendenze ed amministrazioni locali dove condividere indirizzi e integrare meglio obiettivi di tutela e valorizzazione; individuare oggettivi indicatori di efficienza della spesa pubblica; introdurre forme contrattuali innovative nell’affidamento ai privati di beni e servizi; assicurare un indirizzo unitario alle diverse filiere culturali individuando criteri di valutazione che premino trasparenza, efficienza, economicità e sostenibilità. Nel complesso occorre migliorare il dialogo tra le diverse parti in gioco tenendo presente che se l’approccio al tema dei finanziamenti è solo quantitativo si rischiano delle distorsioni che possono dare origine a comportamenti rentseeking; il nostro insistere sull’efficienza non è soltanto una conseguenza della difficile congiuntura economica che rende difficoltoso l’aumento dei finanziamenti pubblici al settore, ma piuttosto riguarda la sostenibilità del settore.
Per quanto riguarda il ruolo dei privati, sostenete che un loro maggiore coinvolgimento può rappresentare un incentivo per la produttività del settore culturale. In che modo?
I privati possono portare dei benefici alla gestione del bene pubblico sotto due prospettive: attenzione all’esigenza della domanda e massimizzazione dei relativi flussi. A questo proposito proponiamo due possibili strategie per incentivare il loro coinvolgimento: la concessione congiunta di un ampio range di servizi, come nel caso della Fondazione Musei Civici di Venezia, che consente anche all’organizzazione culturale di aumentare le entrare; l’affidamento al privato di un ruolo più pieno nella gestione di un bene pubblico ad esempio attraverso la concessione di valorizzazione stimolandolo così a concretizzare investimenti volti a massimizzare i flussi di visita e, quindi, a migliorare la fruibilità.
Avete riscontrato nella vostra analisi dei punti di forza nell’attuale sistema di governo, degli elementi che fanno ben sperare per lo sviluppo futuro del settore?
Viste le specificità territoriali in ambito culturale occorrono governance diversificate, ma occorre raccordo e coordinamento tra gli organi coinvolti. Nelle fondazioni miste pubblico-private ci sono stati riportati esempi di funzionamenti ottimali in presenza però di due condizioni: la competenza delle persone coinvolte e l’efficacia dei controlli.
Le persone incontrate nel corso delle interviste dimostrano senso del bene comune e grandi competenze. La qualità delle risorse umane che presidia il settore è quindi, a mio parere, rassicurante.
© Riproduzione riservata