#2016: l’economia reale e l’innovazione disponibile
Fine d’anno incupito per lo storytelling dell’innovazione: le startup hanno rotto, la sharing economy è morta, le Benefit Corporation minacciano il nonprofit, le imprese di comunità sono residuali. Non c’è fenomenologia più o meno riconducibile a istanze di cambiamento che non sia oggetto di critiche tendenti a ridimensionarne l’impatto. D’altro canto anche i modelli economici e sociali mainstream non se la passano meglio: l’economia è appesa a un misero zerovirgola di prodotto interno lordo (con outlook negativo direbbero – o dicono? – quelli delle agenzie di rating) e la socialità fa contorsionismo intorno a dati sulla fiducia ondivaghi nell’andamento e ambigui nell’interpretazione. Se le cose stanno in questo modo c’è poco da stare allegri per l’anno in arrivo. Senza una svolta significativa, la transizione verso il nuovo assetto post crisi assomiglierà più a un “ristagno secolare”, come ricorda il governatore di Bankitalia Visco nel suo ultimo libro, piuttosto che a un nuovo modello di economia sempre più determinato dal valore sociale, come proviamo a delineare ormai da qualche anno.
Le critiche, per carità, sono in gran parte giuste: è vero che l’enfasi tutta tecnologica sulle startup ha monopolizzato l’attenzione mediatica e dei policy makers, distraendo dal grande cambiamento verso una società più imprenditoriale, anche al di fuori dal dominio delle ICT. Ed è altrettento vero che la quasi totalità della nuova economia digitale che sta rivoluzionando modelli di servizio e di business è governata secondo schemi che hanno ben poco di “condiviso”. Per non parlare poi dei frequenti misunderstanding in merito al ruolo effettivo dei beni comuni come metodo di gestione e governance di partite legate alla produzione di beni e servizi di interesse collettivo e non semplicemente a realizzazioni microcomunitarie che, più di tanto, non disturbano Stato e mercato, la coppia di manovratori che, alla faccia dei buoni propositi, determina (soprattutto il secondo) l’andamento e la direzione dello sviluppo.
Chiudendo qui il discorso non si fa però un gran servizio alla causa, né di chi auspica trasformazioni sistemiche e che vede il percorso costellato di ostacoli sparsi dalle “forze della conservazione”, né di chi gestisce le partite socioeconomiche ordinarie e che, rappresentando l’innovazione come minaccia, si delizia a enfatizzarne l’inconsistenza (“non fa PIL”) e le mancate realizzazioni (“tutta fuffa”). In realtà c’è un percorso avviato e che riguarda ciò che oggi si ri-definisce “economia reale”. Il carattere reale dell’economia si sta lentamente (purtroppo ancora troppo lentamente) ridefinendo, alla luce di una più complessiva trasformazione della società, delle istituzioni, dei modelli produttivi e di consumo. In tal senso si possono evidenziare tre declinazioni di un nuovo “realismo economico” riassumibili in un modello a “tripla W”.
1. La produzione di ricchezza (wealth): un fattore classico che approssima il reale all’economico, ma che però è sempre più scomposto e arricchito guardando a modalità più condivise di produzione e di consumo.
2. La creazione di lavoro (work): altra componente tradizionale dell’economia reale, ma che richiede – anch’essa – di essere ridefinita, guardando a un complesso più articolato di motivazioni ed interessi (creatività, condivisione, ecc.) che mettono in crisi i modelli organizzativi tradizionali ed enfatizzando quelli in senso lato cooperativi.
3. L’impatto sul benessere (well-being): è forse il fattore che più è cresciuto di rilevanza negli ultimi anni, dimostrando che l’economia è reale anche perché genera valore ad ampio raggio e a favore di diversi soggetti.
Non tutta l’economia reale è oggi gestita attraverso modelli che ne valorizzano in modo efficace e sostenibile le diverse componenti. E non tutti i modelli organizzativi sono adeguati rispetto a questa sfida. L’imprenditorialità sociale, declinata in senso ampio, rappresenta la modalità più efficace per gestire una quota parte sempre più consistente di economia reale che oggi giace in forma latente in contesti informali, è bloccata nelle burocrazie ed è svalorizzata in modelli d’impresa che massimizzano solo alcune componenti a scapito di altre. Emergono così diversi modelli di gestione imprenditoriale dove il valore economico è legato al carattere need-driven (legato cioè alla risposta a bisogni altrettanto reali) e di radicamento territoriale (imprese sociali, comunitarie, coesive, ecc.) e rispetto ai quali si ricercano due meta competenze. La prima riguarda la capacità di adattare allo scopo innovazioni tecnologiche che, a ben guardare, sono sono meno monolitiche e totalizzanti di quel che appare (l’internet e le sue risorse sono molto “localizzabili” ci ricorda Frederic Martel nel suo ultimo saggio-inchiesta). La seconda è di far leva su una propensione sempre più diffusa non alla semplice partecipazione nel campo politico-culturale, ma alla coproduzione, sfondando inevitabilmente nel contesto economico in maniera decisamente più massiccia di quanto è successo con i movimenti di metà secolo scorso dai quali è scaturita, guarda caso, la prima ondata di impresa sociale.
Visto che processo è attivo, ma il margine di azione sempre più ristretto, vedo alcuni soggetti che, da subito, possono fare da leader di processo. Soggetti che accettano la sfida innovare non in senso sperimentale o all’interno di contesti più o meno protetti, ma su elementi “core” dello sviluppo. Ecco quindi i pionieri della nuova economia reale che incorpora in modo strutturale l’innovazione sociale e tecnologica ormai disponibile in fase “post-prototipale”: mille cantieri di rigenerazione di asset comunitari (beni immobili e spazi pubblici) che intercettano il civismo di scopo (purpose civicness) emergente; cinquecento imprese sociali eccellenti che si candidano a nuove municipalizzate dell’inclusione sociale (coop B), che modellizzano le imprese coesive come l’italian way dello shared value (Benefit Corporation), che ridefiniscono su base comunitaria e produttiva i sistemi di welfare (coop A, imprese sociali di capitali); dieci piattaforme cooperative che infrastrutturano sistemi di economia condivisa su base territoriale e/o online. Temi di cui credo si occuperà anche il primo numero del 2016 del magazine Vita.
#buonanno!