A Torino CON IL SUD
28 e 29 settembre, la Piazza dei Mestieri a Torino, luogo simbolo per l’inclusione sociale dei giovani a rischio attraverso le professioni, sarà teatro del convegno «A Torino, con il Sud», con il quale la Fondazione CON IL SUD, festeggia il suo sesto compleanno, accompagnata dalle Fondazioni di origine bancaria torinesi. Un appuntamento per promuovere le esperienze di rete e il protagonismo dei giovani, attraverso i progetti «esemplari» avviati nel Mezzogiorno da una realtà che in soli cinque anni si è imposta per la qualità e l’efficacia delle sperimentazioni per l’educazione dei ragazzi alla legalità e per il contrasto alla dispersione scolastica, per valorizzare i giovani talenti e attrarre i «cervelli» al Sud, per la tutela e valorizzazione dei beni comuni (patrimonio storico-artistico e culturale, ambiente, riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie), per la qualificazione dei servizi socio-sanitari, per l’integrazione degli immigrati, per favorire il welfare di comunità. Con una folta rappresentanza del mondo del terzo settore e del volontariato, delle fondazioni, del Governo, delle istituzioni nazionali, meridionali e torinesi si aprirà un confronto su classe dirigente e formazione del terzo settore, di scuola e di educazione dei giovani, di legalità.
Approfondiamo il caso «Fondazione Con il Sud», con il suo Presidente, Carlo Borgomeo.
Presidente, in soli sei anni dalla nascita vi siete posti all’attenzione come luogo di innovazione e state realizzando un percorso che può essere di ispirazione e contaminare altre aree, sovvertendo lo stereotipo dello sviluppo del Paese a senso unico. Chi siete e come siete nati?
La Fondazione, inizialmente denominata «Per il Sud», ora si chiama «Con il Sud», per esprimere il cambio di rotta che vogliamo realizzare. Uscire dall’assistenzialismo per creare condizioni di sviluppo sociale. Ha una genesi assolutamente originale e interessante che parte da una criticità. Le fondazioni di origine bancarie debbono versare un quindicesimo dei propri utili al volontariato. Nel primo periodo di introduzione di questa norma, agli inizi del 2000, si è sviluppato un potenziale contenzioso con il mondo del volontariato sull’entità del versamento. Da una situazione di possibile conflitto, con un decisivo contributo del presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, è emersa l’idea di utilizzare la materia del contendere, circa duecentocinquanta milioni di euro, per creare una fondazione di erogazione che si occupasse di infrastrutturazione del sociale al Sud.
E’ un unicum, sicuramente in Europa, in cui due mondi così diversi fanno nascere una realtà e la co-gestiscono. Il consiglio di amministrazione, otto componenti, e il comitato d'indirizzo, venti, sono composti da membri che provengono al 50% dai due settori.
Organi di governo e luoghi di dialogo e confronto, che favoriscono un’osmosi di visioni, un'evoluzione culturale tra i due mondi.
La Fondazione nasce con un patrimonio di 315 milioni di euro; con un accordo quinquennale, ora rinnovato, le fondazioni bancarie trasferiscono 20 milioni all'anno di contributi.
E’ molto importante che le Fob, nonostante lo scenario, abbiano confermato l’apporto, riconoscendo il valore di quanto produciamo nel Sud e di quanto si può esportare. Se la Fondazione con il Sud dovesse vivere dei soli proventi del patrimonio vedrebbe fortemente ridotta la sua operatività.
Una fondazione che nasce patrimonializzata, con una sostenibilità garantita per un orizzonte temporale che consente una progettualità. Elementi questi costitutivi del veicolo giuridico scelto, ma frequentemente assenti nella pratica. Com’è composta la struttura?
E’ agile, con tredici persone di età media di 33 anni, con un’eccellenza nella progettazione, trasparenza nelle decisioni, rigore nelle valutazioni, un forte sistema di monitoraggio. Non burocratica, ma molto aperta ad interloquire e ad accompagnare i proponenti. Un bel lavorare.
Nel bilancio - che ha vinto l’Oscar nel 2011 [ndr]- si è colpiti dalla puntualità dell'esposizione.
Qual è stato il punto di convergenza tra questi due mondi? Con quale strategia vi muovete?
La strategia è chiaramente delineata dallo statuto: favorire l'infrastrutturazione sociale, il che significa favorire la coesione sociale, il rafforzamento del capitale umano. Tra gli ambiti di intervento prevalente c’è l’«educazione dei giovani», il che significa agire sul fronte della dispersione scolastica, la lotta al bullismo e alle situazioni di disagio adolescenziale. Questa la parte prevalente. Interveniamo poi sulla gestione di beni comuni, ovvero ambiente, beni culturali e beni confiscati alle mafie. Agiamo nell’area dei servizi e interventi socio-sanitari, integrazione degli extracomunitari e valorizzazione del capitale umano di eccellenza. Chiamiamo i nostri progetti esemplari. Abbiamo un territorio immenso, con una grande domanda. Il nostra strategia è agire con un carattere di esemplarità, creare modelli che diventino un punto di riferimento e vengano imitati.
Avete all’attivo oltre 300 progetti sostenuti, programmi di volontariato, le prime 3 «fondazioni di comunità» meridionali. 4.500 organizzazioni diverse coinvolte, tra non profit, istituzioni e privati e 200 mila «destinatari diretti», soprattutto giovani.
Come operate?
Per l’80% attraverso i bandi; poi c'è un'area di progetti co-finanziati e cioè progetti che valutiamo a condizione che vengano condivisi con un altro finanziatore al 50%. Dalla presentazione del progetto comprendiamo il livello di competenza ed esperienza. Due sono i nostri criteri di valutazione: il primo è la capacità di fare rete. Noi non finanziamo mai un solo soggetto. Il secondo è la sostenibilità nel tempo. I progetti vengono pre-selezionati all’interno e sottoposti ad un gruppo di esperti scelto dal consiglio di amministrazione, per integrare le valutazioni. Esigiamo poi rigore nelle spese. I soldi non vanno a spasso.
Un processo di educazione e di crescita in termini di competenze, per governare ogni fase.
Monitoraggio significa anche accompagnare i progetti, vedere i punti critici, per consentire il superamento. Un monitoraggio di tipo qualitativo, non solo documentale, ma sostanziale. I nostri collaboratori seguono, sul campo i progetti, danno suggerimenti.
Quando ci sono lacune nel tradurre in pratica il progetto, come intervenite?
Il progetto può anche essere revocato, ed è accaduto forse tre volte, oppure si interviene per contenerlo. A volte si verificano ritardi, ma non ci sono situazioni patologiche. Comunque il punto centrale è che il progetto non ha il suo momento più alto di interesse per noi all’approvazione, ma dopo.
Come la mettiamo invece con il Pubblico. Quali relazioni avete con il governo dei territori?
Nessuna
Cioè il vostro intervento avviene «a prescindere»?
No, non utilizziamo le nostre risorse per finanziare iniziative pubbliche, ma promuoviamo il coinvolgimento delle amministrazioni nei progetti che hanno a che vedere con la gestione di un bene comune. Importante, ma non imprescindibile.
Tre le fondazioni di comunità. Perché, con quali obiettivi e risultati?
Sono la risposta più alta che si possa dare alla nostra missione: una fondazione autonoma che nasce raccogliendo consenso e risorse finanziarie, almeno 300mila euro per partire, sul territorio. Non sono nostre succursali. La spinta nasce dalla comunità che si auto-organizza. Raddoppiamo entro certi limiti - 2 milioni e mezzo di euro - il capitale iniziale. Per il Sud, abituato chiedere soldi altrove è una provocazione culturale straordinaria.
Le nostre tre fondazioni di comunità hanno dimensioni e caratteristiche totalmente diverse. Tre modelli diversi, in relazione al contesto, che iniziano a produrre dei segni. Ne vorremmo di più. Abbiamo avviato una nuova campagna di promozione, girando per il territorio, per spiegare come si fa, perché è opportuno farlo, quali sono le difficoltà.
Guardando all’esperienza dei primi sei anni, sua diretta e quanto ha ereditato, quali sono i risultati tangibili, a prescindere dai numeri, delle erogazioni e dei progetti, del valore sociale prodotto?
La mia lettura è socio-politica. La Fondazione fa il suo lavoro e cerca di farlo bene. E' un lavoro parziale, rispetto ai problemi che ci sono, ma abbiamo capito ciò che importante per il Sud. Probabilmente, fino ad oggi abbiamo commesso tutti un errore: pensare che lo sviluppo sociale fosse una conseguenza dello sviluppo economico e cioè che il minor grado di coesione sociale, la minore identità comunitaria, diciamo pure il cinismo del Sud, fossero questioni da affrontare a valle delle questioni economiche. Sulla base della nostra esperienza, non per una scelta di tipo ideologico, pensiamo il contrario: il Sud finirà di essere un «problema» quando concentreremo gli sforzi e anche le risorse, su questi aspetti. Ci sono aree in cui le comunità sono talmente «spappolate» che, anche se le riempiamo di vagoni di milioni di euro, non cambia nulla, anzi peggiora.
E’ un tema che riguarda il Sud, in cui ci sono ferite macroscopiche, chiaramente paradigmatiche, ma riguarda anche altre aree del Paese.
Abbiamo una grande esigenza nel Paese: innovare in modo isterico, perché il welfare al quale eravamo abituati non ci sarà mai più, non si tornerà più indietro. Bisogna quindi inventare e si inventa sperimentando, non parlando, meccanismi nuovi di rapporto tra Pubblico e Privato per un nuovo welfare. Questa è l'area di innovazione che ci interessa. Un esempio concreto viene dal nostro ultimo bando, che scade il 15 dicembre, che ha a che vedere con i disabili psichici. E’ innovativo, perché chiama a responsabilità di gestione, in modo nuovo, le famiglie dei disabili non solo nell’attenzione verso i propri figli, ma nella dimensione di gestione delle risorse. Finanzieremo progetti che dimostreranno di poter essere auto-sostenibili.
Uno dei tipi di intervento che sopravvive dopo il nostro supporto è quello della lotta all'evasione dell'obbligo scolastico. Grazie al progetto che abbiamo finanziato vengono sperimentate nuove modalità di relazione - organizzative, operative - tra famiglie, scuole e docenti. Prima si andava, in molti casi, per compartimenti stagni: la scuola faceva iniziative di recupero, le famiglie erano assenti e i professori tentavano di supportare. Cooperazione pubblico-privato non invocata, ma sperimentata.
Quale ruolo gioca la cultura nella progettualità che accogliete?
Rispondo con la frase del parroco della Sanità di Napoli, vero promotore del progetto per la valorizzazione delle Catacombe di San Gennaro: «Nei posti difficili si vince se si mettono insieme gli ultimi e il Bello», non è uno slogan. Quel luogo dimostra come possa essere vincente unire un patrimonio culturale non valorizzato con giovani con un cupo destino. Il Bello non è un lusso per i ricchi, educa anche coloro che siamo colpevolmente abituati a considerare estranei, lontani da esso.
Quali obiettivi vi ponete con il Congresso di Torino?
Lo scorso anno, festeggiando a Napoli alle Catacombe di San Gennaro, nel quartiere Sanità i nostri primi cinque anni di lavoro, con un momento molto alto ed emozionante alla presenza del Presidente della Repubblica, abbiamo deciso di fare il punto delle nostre sperimentazioni annualmente, alternando tra sud e nord le sedi del confronto. Vogliamo creare valore aggiunto confrontandoci con altri soggetti in altre aree del paese – e a Torino l’affluenza sarà massiccia - e dare un contributo per eliminare la meschina contrapposizione «nord-sud». Invece di parlarci a distanza e accusarci reciprocamente, lavoriamo insieme.
Quali i passi futuri per la vostra Fondazione?
Siamo piuttosto calvinisti e cerchiamo di fare il nostro lavoro il meglio possibile. Poi, cerchiamo di fare un'opera di contaminazione delle nostre esperienze nel territorio, di coinvolgere soggetti, di fare avanzare la riflessione sul sociale nel Mezzogiorno, di rafforzare i quadri. La Fondazione ha un sogno nel cassetto: fare una vera e propria attività di fundraising sulle comunità meridionali italiane all'estero.
Ha affermato che «non riesce ad immaginare una cosa di cui mi piacerebbe occuparmi di più ora». Come si aggiorna, cosa sta leggendo. Qualche consiglio a noi?
Sto approfondendo i meridionalisti sconfitti della prima onda, dalla posizione di sviluppo quantitativo, molto forte e nobile, di Saraceno, ovvero il pensiero di un gruppo capitanato da Giorgio Ceriani Sebregondi, che si muoveva sulle logiche dello sviluppo qualitativo.
Faccio mia la sua frase straordinaria «Non c'è sviluppo senza educazione allo sviluppo».
© Riproduzione riservata