Knowledge Interchange. Nuovi driver dell’innovazione
Autore/i:
Rubrica:
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di:
Germano Paini
“Siamo di fronte ad una rivoluzione epocale che dobbiamo imparare ad interpretare”.
Il mondo degli ultimi due secoli è stato studiato come il mondo del capitale industriale: produceva merci, generava alienazione, faceva rumore, quello delle fabbriche. Poi è stata la volta del capitale finanziario: produceva ricchezza, generava adrenalina, e faceva ancora un po’ di rumore, quello delle sedute di borsa. Oggi si sta facendo avanti un nuovo capitale, il capitale documediale: produce documenti, genera mobilitazione, e non fa rumore. La sua matrice è nella recente trasformazione digitale, che ha prodotto una rivoluzione innescata dall’incontro fra una sempre più potente documentalità (la sfera di documenti da cui dipende l’esistenza della realtà sociale) e una medialità diffusa e pervasiva (che fa emergere nuovi ruoli e rilevanza per l’individuazione dei singoli).
Di questa rivoluzione radicale e impercettibile, ma di impatto travolgente sulle persone, sui mercati sulle imprese e sulla società si occupa il volume, Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale, di cui è autore, insieme a Maurizio Ferraris, Germano Paini, che ci offre una sua riflessione.
Perché
L’intera nostra esperienza è influenzata in termini così pervasivi da quel che è successo che lo spettro delle implicazioni non è pienamente interpretabile.
Ogni nostra azione ha subìto una serie di mutamenti a partire dalla rivoluzione industriale introdotta dal digitale, che impattano in modo straordinario sul nostro modo di essere come persone e come soggetti che si pongono in relazione con altre persone.
Ma la presenza ora consolidata nell’economia e nella società dell’informatica, prende avvio già nella seconda metà del XX secolo. Cos’è cambiato da quando l’informatica ha dapprima (i) gestito i processi e la produttività individuale,(ii) ha portato robot nell’applicazione industriale e infine (iii) introdotto il Web nelle sue diverse articolazioni?
Ciò che caratterizza la nuova fase che stiamo vivendo, in cui la pervasività del digitale va oltre l’evoluzione del Web, è la capacità di innestarsi in ogni singolo momento dell’azione individuale e sociale.
L’elaborazione dei dati, a differenza di quanto è accaduto in passato, non serve solo a condizionare i nostri interessi e le nostre scelte sulla base di un semplice e già sperimentato intento manipolatorio finalizzato a indurre ad acquistare prodotti esistenti, ma consente, in forma del tutto nuova, la possibilità di prevedere lo sviluppo dei nostri interessi e delle nostre future scelte. Si tratta di un passaggio di particolare rilievo, che costituisce uno degli elementi scarsamente considerati nelle analisi relative all’utilizzo dei big data, ma fondamentale della comprensione delle opportunità della trasformazione digitale e per le prospettive future del sistema economico e sociale.
La società intera vive fenomeni di radicale trasformazione indotti da una pervasiva interazione non deterministica tra tecnologia e azione sociale.
Gli elementi più rilevanti del processo in atto possono essere ricondotti alle implicazioni della trasformazione digitale della società sugli individui e sui mercati. La rivoluzione digitale ricade direttamente sulle persone e le colloca in una posizione radicalmente diversa rispetto alle fasi storiche precedenti. Dopo essere passati da semplici consumer dei servizi digitali a prosumer, in grado contestualmente di essere fruitori e produttori dei contenuti generati, oggi ciascuno di noi ha preso in carico una parte significativa della produzione del valore generato nella società neo-industriale.
Produciamo grandi moli di dati che rappresentano la merce più preziosa della nostra società e nel farlo lavoriamo molto di più di quanto si possa ritenere a una lettura semplicistica dell’impatto del digitale sul lavoro.
Si fa un gran parlare infatti di una possibile perdita di posti di lavoro a causa dell’impiego dei robot, ma ad una lettura più attenta dobbiamo riconoscere che più che dei robot dovremmo preoccuparci di noi stessi.
Siamo noi umani che lavorando ben oltre le nostre mansioni e tempo di lavoro codificato e pagato, svolgiamo attività moltiplicando il nostro tempo lavoro e sottraendo opportunità di impiego a chi svolgeva in passato quelle attività. Accade mentre lavoriamo al posto degli (i) impiegati di banca, quando utilizziamo l’home banking; (ii) degli addetti di agenzia di viaggi, quando programmiamo le loro vacanze; (iii) degli impiegati degli uffici pubblici quando produciamo un certificato; (iv) degli operatori di biglietteria, quando compriamo un biglietto, e cosi via. Lavoriamo senza limiti d’orario, senza saperlo o meglio, senza averne piena coscienza e senza saper valutare gli effetti sul sistema economico e occupazionale del nostro lavoro ‘anomalo’ – così anomalo da non essere di fatto nemmeno considerato nelle analisi relative alla trasformazione del lavoro.
Così la trasformazione della società e l’emergere di nuovi comportamenti individuali e sociali impongono analisi che riguardano le soluzioni tecnologiche ma soprattutto richiedono lo studio nei campi delle scienze legate al comportamento umano e sociale e alle dinamiche che impattano sull’espressione della domanda, prima ancora che relative alla produzione delle merci.
Le scienze umane, sociali e umanistiche – le cosiddette HSSH (Human, Social Science and Humanities) – offrono un contributo chiave per la comprensione delle trasformazioni in atto e per aiutare le imprese a interpretare le opportunità dei loro mercati di riferimento, ma anche le nuove opportunità non ancora espresse per definire l’indirizzamento delle scelte produttive.
Nuovi driver dell’innovazione dal sistema della Filantropia
Cogliere l’essenza della trasformazione digitale e definire la direzione verso cui volgere lo sguardo per capire come configurare l’azione, aiuta a comprendere quanto sia necessario che nessuno si sottragga alla responsabilità di elaborare visioni di prospettiva e ad ampio spettro adottando modelli innovativi di collaborazione che permettano ai territori di raccogliere pienamente le opportunità della sfida digitale.
La capacità di comprendere le dinamiche trasformative in atto, di generare e governare innovazione, di metterla a fattore comune, di rispondere ai bisogni emergenti e di attrezzarsi in termini di capacità di risposta, è il terreno in cui si gioca in cui sono impegnati tradizionalmente le università le imprese e le pubbliche amministrazioni.
Nel panorama contemporaneo emergono però nuovi driver dell’innovazione in grado di imporsi in maniera dirompente nei meccanismi e nei circuiti dell’elaborazione e dell’implementazione dell’innovazione. Sono presenti e attivi al di fuori degli schemi convenzionali; si muovono e creano ‘situazioni di fatto’ che si affermano come riferimento per una comunità, quella degli innovatori, sempre più variegata e incisiva.
Sono nuovi driver dell’innovazione alcune esperienze che traggono origine dalla trasformazione della filantropia. Il sistema della filantropia, che in passato ha principalmente cercato con la sua azione la soddisfazione delle esigenze del donatore, a volte anche con valenza compensativa nei confronti della società, lascia sempre più l’approccio tradizionalmente orientato all’erogazione di contributi per orientarsi sempre più a partecipare alla co-progettazione di interventi innovativi su questioni cruciali per la collettività.
La loro forza innovativa deriva dal percorso che le ha portate, in un numero relativamente ristretto di anni, dall’essere donor a divenire grant maker e infine, oggi, a qualificarsi in una logica di strategic philantrophy.
Sono nuovi driver dell’innovazione di particolare interesse e innovatività anche le esperienze di impact investing che, grazie a un approccio aperto e flessibile sul piano del ritorno sull’investimento, focalizzano la loro attenzione sull’impatto dei loro interventi diretti e indiretti, potendo contare in genere su un capitale ‘paziente’, che li pone in grado di operare attendendo la manifestazione dei risultati e delle ricadute che non sempre sono raggiunti in tempi coerenti con le esigenze di chi investe capitali convenzionali.
E’ poi ampiamente riconosciuta la capacità di generare, introdurre e anche governare l’innovazione da parte delle fondazioni di origine bancaria che possono mettere in campo, in virtù della responsabilità istituzionale focalizzata su territori specifici, parte del loro rilevante patrimonio e della crescente acquisizione di visione strategica in interventi di grande impatto nei campi in cui operano.
Grazie alla loro posizione nei confronti degli attori del territorio si collocano, in questa fase, tra i più determinati e determinanti fattori dello sviluppo locale, passando da una funzione di sussidiarietà negli interventi a supporto di singole criticità sociali, a una nuova e decisamente più incisiva azione strategica.
E l’Università?
Anche l’Accademia sta ridefinendo la sua azione in coerenza con un ruolo che non è più centrato sull’essere luogo di elaborazione della conoscenza e della tecnologia, che va poi trasferita alle imprese e ai territori. Oggi l’Università è punto di snodo di un processo di confronto e di fertile elaborazione multistakeholders orientato ad affrontare e risolvere direttamente sia le grandi sfide della società contemporanea sia le implicazioni nei contesti operativi.
Grazie a questo approccio che denominiamo Knowledge Interchange si supera il modello lineare tradizionalmente impostato su una serie di stadi – dal teorico all’operativo – disposti sequenzialmente, in cui la relazione tra (i) ricerca fondamentale, (ii) ricerca applicata e (iii) sviluppo di prodotti si articolava lungo percorsi di tipo unidirezionale.
Con il modello Knowledge Interchange la ricerca si mette a disposizione delle imprese, delle pubbliche amministrazioni, dei cittadini e degli altri soggetti del sistema territoriale, riconoscendo il valore della loro ‘conoscenza’, accompagnandoli nel comprendere e valutare le sfide in atto e quelle ancora latenti al fine di individuare insieme soluzioni e gli interventi da implementare sia per quanto attiene all’immediato sia per il medio-lungo periodo.
© Riproduzione Riservata
Germano Paini è sociologo dell’innovazione e data scientist. È Head of innovation and competitiveness dell’Università di Torino e direttore del Comitato scientifico dell’Istituto di Studi Avanzati - Scienza Nuova. Studia i fenomeni complessi. Sviluppa le opportunità e le implicazioni dei processi innovativi sulla società, sui mercati, sulle imprese, sul lavoro e sulle persone con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalla rivoluzione digitale. Coordina progetti di ricerca collaborativa con le imprese. Promuove e sviluppa la ricerca interdisciplinare. Ha ideato e implementato il Knowledge interchange come nuovo modello di interazione tra Università e territori. Coordina il progetto “Piemonte 2029” per la Strategia operativa relativa all’innovazione e allo sviluppo digitale del Piemonte. È coautore del saggio “Scienza Nuova. Ontologia per la trasformazione digitale” (2018).
Il mondo degli ultimi due secoli è stato studiato come il mondo del capitale industriale: produceva merci, generava alienazione, faceva rumore, quello delle fabbriche. Poi è stata la volta del capitale finanziario: produceva ricchezza, generava adrenalina, e faceva ancora un po’ di rumore, quello delle sedute di borsa. Oggi si sta facendo avanti un nuovo capitale, il capitale documediale: produce documenti, genera mobilitazione, e non fa rumore. La sua matrice è nella recente trasformazione digitale, che ha prodotto una rivoluzione innescata dall’incontro fra una sempre più potente documentalità (la sfera di documenti da cui dipende l’esistenza della realtà sociale) e una medialità diffusa e pervasiva (che fa emergere nuovi ruoli e rilevanza per l’individuazione dei singoli).
Di questa rivoluzione radicale e impercettibile, ma di impatto travolgente sulle persone, sui mercati sulle imprese e sulla società si occupa il volume, Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale, di cui è autore, insieme a Maurizio Ferraris, Germano Paini, che ci offre una sua riflessione.
Perché
L’intera nostra esperienza è influenzata in termini così pervasivi da quel che è successo che lo spettro delle implicazioni non è pienamente interpretabile.
Ogni nostra azione ha subìto una serie di mutamenti a partire dalla rivoluzione industriale introdotta dal digitale, che impattano in modo straordinario sul nostro modo di essere come persone e come soggetti che si pongono in relazione con altre persone.
Ma la presenza ora consolidata nell’economia e nella società dell’informatica, prende avvio già nella seconda metà del XX secolo. Cos’è cambiato da quando l’informatica ha dapprima (i) gestito i processi e la produttività individuale,(ii) ha portato robot nell’applicazione industriale e infine (iii) introdotto il Web nelle sue diverse articolazioni?
Ciò che caratterizza la nuova fase che stiamo vivendo, in cui la pervasività del digitale va oltre l’evoluzione del Web, è la capacità di innestarsi in ogni singolo momento dell’azione individuale e sociale.
L’elaborazione dei dati, a differenza di quanto è accaduto in passato, non serve solo a condizionare i nostri interessi e le nostre scelte sulla base di un semplice e già sperimentato intento manipolatorio finalizzato a indurre ad acquistare prodotti esistenti, ma consente, in forma del tutto nuova, la possibilità di prevedere lo sviluppo dei nostri interessi e delle nostre future scelte. Si tratta di un passaggio di particolare rilievo, che costituisce uno degli elementi scarsamente considerati nelle analisi relative all’utilizzo dei big data, ma fondamentale della comprensione delle opportunità della trasformazione digitale e per le prospettive future del sistema economico e sociale.
La società intera vive fenomeni di radicale trasformazione indotti da una pervasiva interazione non deterministica tra tecnologia e azione sociale.
Gli elementi più rilevanti del processo in atto possono essere ricondotti alle implicazioni della trasformazione digitale della società sugli individui e sui mercati. La rivoluzione digitale ricade direttamente sulle persone e le colloca in una posizione radicalmente diversa rispetto alle fasi storiche precedenti. Dopo essere passati da semplici consumer dei servizi digitali a prosumer, in grado contestualmente di essere fruitori e produttori dei contenuti generati, oggi ciascuno di noi ha preso in carico una parte significativa della produzione del valore generato nella società neo-industriale.
Produciamo grandi moli di dati che rappresentano la merce più preziosa della nostra società e nel farlo lavoriamo molto di più di quanto si possa ritenere a una lettura semplicistica dell’impatto del digitale sul lavoro.
Si fa un gran parlare infatti di una possibile perdita di posti di lavoro a causa dell’impiego dei robot, ma ad una lettura più attenta dobbiamo riconoscere che più che dei robot dovremmo preoccuparci di noi stessi.
Siamo noi umani che lavorando ben oltre le nostre mansioni e tempo di lavoro codificato e pagato, svolgiamo attività moltiplicando il nostro tempo lavoro e sottraendo opportunità di impiego a chi svolgeva in passato quelle attività. Accade mentre lavoriamo al posto degli (i) impiegati di banca, quando utilizziamo l’home banking; (ii) degli addetti di agenzia di viaggi, quando programmiamo le loro vacanze; (iii) degli impiegati degli uffici pubblici quando produciamo un certificato; (iv) degli operatori di biglietteria, quando compriamo un biglietto, e cosi via. Lavoriamo senza limiti d’orario, senza saperlo o meglio, senza averne piena coscienza e senza saper valutare gli effetti sul sistema economico e occupazionale del nostro lavoro ‘anomalo’ – così anomalo da non essere di fatto nemmeno considerato nelle analisi relative alla trasformazione del lavoro.
Così la trasformazione della società e l’emergere di nuovi comportamenti individuali e sociali impongono analisi che riguardano le soluzioni tecnologiche ma soprattutto richiedono lo studio nei campi delle scienze legate al comportamento umano e sociale e alle dinamiche che impattano sull’espressione della domanda, prima ancora che relative alla produzione delle merci.
Le scienze umane, sociali e umanistiche – le cosiddette HSSH (Human, Social Science and Humanities) – offrono un contributo chiave per la comprensione delle trasformazioni in atto e per aiutare le imprese a interpretare le opportunità dei loro mercati di riferimento, ma anche le nuove opportunità non ancora espresse per definire l’indirizzamento delle scelte produttive.
Nuovi driver dell’innovazione dal sistema della Filantropia
Cogliere l’essenza della trasformazione digitale e definire la direzione verso cui volgere lo sguardo per capire come configurare l’azione, aiuta a comprendere quanto sia necessario che nessuno si sottragga alla responsabilità di elaborare visioni di prospettiva e ad ampio spettro adottando modelli innovativi di collaborazione che permettano ai territori di raccogliere pienamente le opportunità della sfida digitale.
La capacità di comprendere le dinamiche trasformative in atto, di generare e governare innovazione, di metterla a fattore comune, di rispondere ai bisogni emergenti e di attrezzarsi in termini di capacità di risposta, è il terreno in cui si gioca in cui sono impegnati tradizionalmente le università le imprese e le pubbliche amministrazioni.
Nel panorama contemporaneo emergono però nuovi driver dell’innovazione in grado di imporsi in maniera dirompente nei meccanismi e nei circuiti dell’elaborazione e dell’implementazione dell’innovazione. Sono presenti e attivi al di fuori degli schemi convenzionali; si muovono e creano ‘situazioni di fatto’ che si affermano come riferimento per una comunità, quella degli innovatori, sempre più variegata e incisiva.
Sono nuovi driver dell’innovazione alcune esperienze che traggono origine dalla trasformazione della filantropia. Il sistema della filantropia, che in passato ha principalmente cercato con la sua azione la soddisfazione delle esigenze del donatore, a volte anche con valenza compensativa nei confronti della società, lascia sempre più l’approccio tradizionalmente orientato all’erogazione di contributi per orientarsi sempre più a partecipare alla co-progettazione di interventi innovativi su questioni cruciali per la collettività.
La loro forza innovativa deriva dal percorso che le ha portate, in un numero relativamente ristretto di anni, dall’essere donor a divenire grant maker e infine, oggi, a qualificarsi in una logica di strategic philantrophy.
Sono nuovi driver dell’innovazione di particolare interesse e innovatività anche le esperienze di impact investing che, grazie a un approccio aperto e flessibile sul piano del ritorno sull’investimento, focalizzano la loro attenzione sull’impatto dei loro interventi diretti e indiretti, potendo contare in genere su un capitale ‘paziente’, che li pone in grado di operare attendendo la manifestazione dei risultati e delle ricadute che non sempre sono raggiunti in tempi coerenti con le esigenze di chi investe capitali convenzionali.
E’ poi ampiamente riconosciuta la capacità di generare, introdurre e anche governare l’innovazione da parte delle fondazioni di origine bancaria che possono mettere in campo, in virtù della responsabilità istituzionale focalizzata su territori specifici, parte del loro rilevante patrimonio e della crescente acquisizione di visione strategica in interventi di grande impatto nei campi in cui operano.
Grazie alla loro posizione nei confronti degli attori del territorio si collocano, in questa fase, tra i più determinati e determinanti fattori dello sviluppo locale, passando da una funzione di sussidiarietà negli interventi a supporto di singole criticità sociali, a una nuova e decisamente più incisiva azione strategica.
E l’Università?
Anche l’Accademia sta ridefinendo la sua azione in coerenza con un ruolo che non è più centrato sull’essere luogo di elaborazione della conoscenza e della tecnologia, che va poi trasferita alle imprese e ai territori. Oggi l’Università è punto di snodo di un processo di confronto e di fertile elaborazione multistakeholders orientato ad affrontare e risolvere direttamente sia le grandi sfide della società contemporanea sia le implicazioni nei contesti operativi.
Grazie a questo approccio che denominiamo Knowledge Interchange si supera il modello lineare tradizionalmente impostato su una serie di stadi – dal teorico all’operativo – disposti sequenzialmente, in cui la relazione tra (i) ricerca fondamentale, (ii) ricerca applicata e (iii) sviluppo di prodotti si articolava lungo percorsi di tipo unidirezionale.
Con il modello Knowledge Interchange la ricerca si mette a disposizione delle imprese, delle pubbliche amministrazioni, dei cittadini e degli altri soggetti del sistema territoriale, riconoscendo il valore della loro ‘conoscenza’, accompagnandoli nel comprendere e valutare le sfide in atto e quelle ancora latenti al fine di individuare insieme soluzioni e gli interventi da implementare sia per quanto attiene all’immediato sia per il medio-lungo periodo.
© Riproduzione Riservata
Germano Paini è sociologo dell’innovazione e data scientist. È Head of innovation and competitiveness dell’Università di Torino e direttore del Comitato scientifico dell’Istituto di Studi Avanzati - Scienza Nuova. Studia i fenomeni complessi. Sviluppa le opportunità e le implicazioni dei processi innovativi sulla società, sui mercati, sulle imprese, sul lavoro e sulle persone con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalla rivoluzione digitale. Coordina progetti di ricerca collaborativa con le imprese. Promuove e sviluppa la ricerca interdisciplinare. Ha ideato e implementato il Knowledge interchange come nuovo modello di interazione tra Università e territori. Coordina il progetto “Piemonte 2029” per la Strategia operativa relativa all’innovazione e allo sviluppo digitale del Piemonte. È coautore del saggio “Scienza Nuova. Ontologia per la trasformazione digitale” (2018).