Valutare i processi sociali, oltre la periferia del prodotto
Autore/i:
Rubrica:
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di:
Catterina Seia
Prosegue il dibattito generato dall’articolo di Carola Carazzone, segretario generale di Assifero sui “falsi miti del Terzo Settore che ne impediscono lo sviluppo”. Ne conversiamo con il sociologo Gino Mazzoli, docente universitario, consigliere in fondazioni di origine bancaria, consulente e co-attore di progetti di welfare generativo. “Servono degli acceleratori in grado di incentivare scommesse coraggiose e l’attitudine a intraprenderle. Le Fondazioni possono rappresentare forse il più rilevante di questi acceleratori, perché possono permettersi la pazienza di allestire una massa critica di sperimentazioni e soprattutto di concedere loro un tempo di incubazione abitualmente non consentito, oltre che gestire un’ineludibile funzione di accompagnamento allo sviluppo di queste nuove forme di vita.”
Cosa l’ha colpita nella lettura di scenario e nelle prospettive enunciate da Carazzone?
L’articolo descrive con onestà intellettuale, lucidità ed efficacia i nodi reali: il superamento del tabù del finanziamento dei costi generali, del feticismo dei quadri logici e dei progettifici, il sostegno a un terzo settore vitale, ma attraversato da criticità strutturali; la necessaria costruzione di partnership per lo sviluppo dei territori in luogo di competizioni che nel welfare sono distruttive del tessuto in cui si vorrebbero costruire legami. Sono tutti temi su cui sto cercando d’impegnarmi da anni.
Il suo è un impegno nella ricerca e nell’azione, che influenza le politiche di welfare.
Il mio impegno prevalente va ben oltre l’università ed è nei cantieri locali del welfare dove faccio consulenza, ricerca e formazione da trent’anni. In particolare in questi ultimi quattro anni sto promuovendo - prevalentemente attraverso le fondazioni di origine bancaria con diversi ruoli e in tre progetti “gemelli” su altrettanti territori (1) - delle ipotesi di intervento sul welfare alla luce delle modificazioni profonde che attraversano la società: nuove tecnologie, crisi delle istituzioni ed emersione di nuove vulnerabilità in ceti sociali che non avevano mai avuto difficoltà ad arrivare a fine mese, stanno creando una costellazione di nodi raramente messi in connessione che modifica profondamente il welfare, perché mina alla radice il consenso di cui ha goduto finora. La questione è quindi marcatamente politica (’ho aperta anni fa con questo saggio e ci tornerò sopra a breve). Ma i tecnici delle Fondazioni (pur con notevoli eccezioni) faticano ad entrarvi e i politici non sempre la sanno maneggiare.
Quale ruolo legge per la filantropia istituzionale in questo scenario?
A mio avviso le Fondazioni sono un’opportunità estremamente importante per la nostra società (in particolare per il welfare) su più fronti.
Innanzitutto quale altro soggetto può vantare una posizione di terzietà rispetto ad attori sommersi da norme , ricorsi, conflitti?
Se si guarda la cosa da questo aspetto si può notare come le Fondazioni possano:
- avviare sperimentazioni innovative controcorrente su cui gli attori del welfare faticano a investire;
- svolgere una funzione di accompagnamento orientativo degli attori locali pubblici e di terzo settore sul nuovo welfare da costruire;
- costruire spazi per una concertazione sociale informale intorno a cose concrete da fare, che faticherebbe ad avvenire in altre modalità per motivi ideologici, burocratici e di vicende locali.
Nella sua esperienza, quali esiti tangibili ha visto negli interventi di una filantropia da XXI secolo che va oltre l’erogazione a progetto per contribuire a delineare un nuovo welfare?
Nei contesti in cui sono collocati i progetti che seguo direttamente si nota una diminuzione della ’questua’ individuale verso le fondazioni (ci si era proposti infatti di modificare l’atteggiamento degli attori locali verso le fondazioni che la crisi porta a concepire come bancomat a dotazione infinita). Decisivo risulta l’aiuto fornito ai diversi attori a convergere per generare nuove risorse volte a gestire i nuovi problemi che attraversano le famiglie: un riorientamento della vision e della prassi degli attori del welfare locale (una sorta di formazione de facto, non dichiarata). Il nuovo contesto vede più problemi tra le persone, reti indebolite e meno soldi in dotazione alle istituzioni. Senza un riorientamento forte delle prassi del welfare saremo a breve in condizioni molto difficili anche in regioni che non hanno mai conosciuto difficoltà nella costruzione di risposte. Servono degli acceleratori in grado di incentivare scommesse coraggiose e l’attitudine a intraprenderle. Le Fondazioni possono rappresentare forse il più rilevante di questi acceleratori, perché possono permettersi la pazienza di allestire una massa critica di sperimentazioni e soprattutto di concedere loro un tempo di incubazione abitualmente non consentito, oltre che gestire un’ineludibile funzione di accompagnamento allo sviluppo di queste nuove forme di vita.
Quali difficoltà nell’agire questo ruolo?
Le Fondazioni di norma sono poco abituate a gestire un intenso traffico di relazioni col territorio. Per questo progetti che richiedono accompagnamenti complessi devono allestire staff dedicati. Ma anche laddove esiste un apparato tecnico consistente e competente non sempre c’è la cultura per investire sulla capitalizzazione dei percorsi avviati. Le fondazioni allestiscono a volte grandi parchi di progetti sperimentali che richiederebbero un monitoraggio pluriennale per capire cosa sta succedendo (cadute, riprese, gemmazioni, esiti inattesi) ed eventualmente sostenere, visualizzare, connettere con altri contesti. È noto che gli esiti inattesi sono spesso i più rilevanti nelle politiche pubbliche e nel welfare in particolare; ma bisogna dotarsi di dispositivi per vedere queste conseguenze a distanza di tempo e di spazio. Se invece finito un progetto lo si considera chiuso e se ne avvia un altro, si perde un apprendimento decisivo per la comunità. Una pista percorribile potrebbe esse quella di costruire joint venture con le Università: i tirocini dei master in materie limitrofe al welfare (ma si potrebbero costruire anche master ad hoc) potrebbero centrarsi sul monitoraggio di progetti avviati dalle Fondazioni. In questo modo l’Università si collegherebbe al territorio; lo studente apprenderebbe dal fare rendendo l’aula più viva (il docente dovrebbe fare analisi comparative dei diversi progetti); la fondazione e gli attori locali acquisirebbero valutazioni e consulenze gratuite certificate dall’università; la fondazione potrebbe mettere sul piatto qualche soldo.
Cambiano la filantropia istituzionale e il terzo settore sostenuto, Cosa sta accadendo?
Si è chiuso il dispositivo storico e giuridico che aveva determinato l’esplosione del fenomeno volontariato, vale a dire il cinquantennio caratterizzato da lavoro a tempo indeterminato, pensione a 50-55 anni, TFR e lavoro pressoché sicuro per i figli. Così da qualche anno volontariato e associazionismo tradizionali sono attraversati da un processo di lento, ma inesorabile declino, senza che ovviamente ne venga meno l’indispensabile funzione sociale. Le organizzazioni più longeve (dunque con maggiori competenze nella gestione della democrazia interna e della burocrazia, e nella capacità di accedere a finanziamenti) in genere hanno una vision datata e fanno registrare un calo costante di iscritti.
Al contrario le organizzazioni informali vantano maggiore aderenza ai nuovi problemi, ma sono molto effimere quanto a durata e organizzazione.
Diventa decisivo aiutare le organizzazioni del primo tipo a uscire dai propri perimetri e quelle del secondo tipo a collegarsi ad altre sviluppando funzioni organizzative in rete. Poi dovrebbe essere interesse di tutta la comunità censire (senza esigere ovviamente una precisone millimetrica) le organizzazioni informali, sia perché verrebbero alla luce attività molto importanti che potrebbero connettersi ad altre, sia perché il saldo annuale di aperture/chiusure costituirebbe un termometro significativo della vitalità di una comunità
I Centri di servizio al volontariato che potrebbero fungere da connettore e sostegno per questo mondo dell’informale in espansione, sono però governati dalla prima tipologia di organizzazioni che fatica a vedere quello qui descritto come un obiettivo significativo. Quando sono riuscito con dei CSV a censire il volontariato informale abbiamo trovato che le organizzazioni iscritte al registro sono tra il 15 e il 20% di quelle presenti. Il sommerso dunque è il quadruplo di ciò che si vede.
E’ un obiettivo innovativo, poco visto, ma cruciale su cui le fondazioni potrebbero fornire un contributo non irrilevante.
Valutazione dell’impatto. Il tema pare guidare l’evoluzione delle strategie, è presente in ogni convegno, sentito come urgenza, ma cosa e come valutiamo?
Sulla valutazione d’impatto c’è una quantità immensa di indicatori, modelli e definizioni molto raffinati che spesso però a mio avviso si attardano su aspetti non decisivi, moltiplicano gli item rendendo impraticabili i modelli, o al contrario esitano in definizione genericissime in cui sta dentro tutto e il suo contrario, perdendo di vista il peso strategico che ha la scelta di questo anziché di quell’altro indicatore. Più in generale è tutto un dibattito sulla valutazione che non viene mai portato a livello delle scelte strategiche lasciandolo nel limbo degli addetti ai lavori: cosa significa in termini politici utilizzare un metodo, un criterio, un item rispetto a un altro? E poi, al fondo di tutto bisogna porsi il seguente quesito: se i prodotti del lavoro sociale, educativo e psicologico sono talmente complessi che la loro valutazione accurata richiederebbe un investimento di tempo e denaro maggiore di quello necessario per realizzarli, o accettiamo di investire somme adeguate, oppure prendiamo atto che se i sistemi valutativi che abitualmente utilizziamo si arrestano a valutare la periferia del prodotto, li assumiamo con tutte le cautele del caso e iniziamo finalmente a pensare che i problemi sociali si possono comprendere, gestire e valutare solo socialmente, vale a dire attraverso processi sociali di persuasione reciproca e progressiva tra attori.
L’articolo descrive con onestà intellettuale, lucidità ed efficacia i nodi reali: il superamento del tabù del finanziamento dei costi generali, del feticismo dei quadri logici e dei progettifici, il sostegno a un terzo settore vitale, ma attraversato da criticità strutturali; la necessaria costruzione di partnership per lo sviluppo dei territori in luogo di competizioni che nel welfare sono distruttive del tessuto in cui si vorrebbero costruire legami. Sono tutti temi su cui sto cercando d’impegnarmi da anni.
Il suo è un impegno nella ricerca e nell’azione, che influenza le politiche di welfare.
Il mio impegno prevalente va ben oltre l’università ed è nei cantieri locali del welfare dove faccio consulenza, ricerca e formazione da trent’anni. In particolare in questi ultimi quattro anni sto promuovendo - prevalentemente attraverso le fondazioni di origine bancaria con diversi ruoli e in tre progetti “gemelli” su altrettanti territori (1) - delle ipotesi di intervento sul welfare alla luce delle modificazioni profonde che attraversano la società: nuove tecnologie, crisi delle istituzioni ed emersione di nuove vulnerabilità in ceti sociali che non avevano mai avuto difficoltà ad arrivare a fine mese, stanno creando una costellazione di nodi raramente messi in connessione che modifica profondamente il welfare, perché mina alla radice il consenso di cui ha goduto finora. La questione è quindi marcatamente politica (’ho aperta anni fa con questo saggio e ci tornerò sopra a breve). Ma i tecnici delle Fondazioni (pur con notevoli eccezioni) faticano ad entrarvi e i politici non sempre la sanno maneggiare.
Quale ruolo legge per la filantropia istituzionale in questo scenario?
A mio avviso le Fondazioni sono un’opportunità estremamente importante per la nostra società (in particolare per il welfare) su più fronti.
Innanzitutto quale altro soggetto può vantare una posizione di terzietà rispetto ad attori sommersi da norme , ricorsi, conflitti?
Se si guarda la cosa da questo aspetto si può notare come le Fondazioni possano:
- avviare sperimentazioni innovative controcorrente su cui gli attori del welfare faticano a investire;
- svolgere una funzione di accompagnamento orientativo degli attori locali pubblici e di terzo settore sul nuovo welfare da costruire;
- costruire spazi per una concertazione sociale informale intorno a cose concrete da fare, che faticherebbe ad avvenire in altre modalità per motivi ideologici, burocratici e di vicende locali.
Nella sua esperienza, quali esiti tangibili ha visto negli interventi di una filantropia da XXI secolo che va oltre l’erogazione a progetto per contribuire a delineare un nuovo welfare?
Nei contesti in cui sono collocati i progetti che seguo direttamente si nota una diminuzione della ’questua’ individuale verso le fondazioni (ci si era proposti infatti di modificare l’atteggiamento degli attori locali verso le fondazioni che la crisi porta a concepire come bancomat a dotazione infinita). Decisivo risulta l’aiuto fornito ai diversi attori a convergere per generare nuove risorse volte a gestire i nuovi problemi che attraversano le famiglie: un riorientamento della vision e della prassi degli attori del welfare locale (una sorta di formazione de facto, non dichiarata). Il nuovo contesto vede più problemi tra le persone, reti indebolite e meno soldi in dotazione alle istituzioni. Senza un riorientamento forte delle prassi del welfare saremo a breve in condizioni molto difficili anche in regioni che non hanno mai conosciuto difficoltà nella costruzione di risposte. Servono degli acceleratori in grado di incentivare scommesse coraggiose e l’attitudine a intraprenderle. Le Fondazioni possono rappresentare forse il più rilevante di questi acceleratori, perché possono permettersi la pazienza di allestire una massa critica di sperimentazioni e soprattutto di concedere loro un tempo di incubazione abitualmente non consentito, oltre che gestire un’ineludibile funzione di accompagnamento allo sviluppo di queste nuove forme di vita.
Quali difficoltà nell’agire questo ruolo?
Le Fondazioni di norma sono poco abituate a gestire un intenso traffico di relazioni col territorio. Per questo progetti che richiedono accompagnamenti complessi devono allestire staff dedicati. Ma anche laddove esiste un apparato tecnico consistente e competente non sempre c’è la cultura per investire sulla capitalizzazione dei percorsi avviati. Le fondazioni allestiscono a volte grandi parchi di progetti sperimentali che richiederebbero un monitoraggio pluriennale per capire cosa sta succedendo (cadute, riprese, gemmazioni, esiti inattesi) ed eventualmente sostenere, visualizzare, connettere con altri contesti. È noto che gli esiti inattesi sono spesso i più rilevanti nelle politiche pubbliche e nel welfare in particolare; ma bisogna dotarsi di dispositivi per vedere queste conseguenze a distanza di tempo e di spazio. Se invece finito un progetto lo si considera chiuso e se ne avvia un altro, si perde un apprendimento decisivo per la comunità. Una pista percorribile potrebbe esse quella di costruire joint venture con le Università: i tirocini dei master in materie limitrofe al welfare (ma si potrebbero costruire anche master ad hoc) potrebbero centrarsi sul monitoraggio di progetti avviati dalle Fondazioni. In questo modo l’Università si collegherebbe al territorio; lo studente apprenderebbe dal fare rendendo l’aula più viva (il docente dovrebbe fare analisi comparative dei diversi progetti); la fondazione e gli attori locali acquisirebbero valutazioni e consulenze gratuite certificate dall’università; la fondazione potrebbe mettere sul piatto qualche soldo.
Cambiano la filantropia istituzionale e il terzo settore sostenuto, Cosa sta accadendo?
Si è chiuso il dispositivo storico e giuridico che aveva determinato l’esplosione del fenomeno volontariato, vale a dire il cinquantennio caratterizzato da lavoro a tempo indeterminato, pensione a 50-55 anni, TFR e lavoro pressoché sicuro per i figli. Così da qualche anno volontariato e associazionismo tradizionali sono attraversati da un processo di lento, ma inesorabile declino, senza che ovviamente ne venga meno l’indispensabile funzione sociale. Le organizzazioni più longeve (dunque con maggiori competenze nella gestione della democrazia interna e della burocrazia, e nella capacità di accedere a finanziamenti) in genere hanno una vision datata e fanno registrare un calo costante di iscritti.
Al contrario le organizzazioni informali vantano maggiore aderenza ai nuovi problemi, ma sono molto effimere quanto a durata e organizzazione.
Diventa decisivo aiutare le organizzazioni del primo tipo a uscire dai propri perimetri e quelle del secondo tipo a collegarsi ad altre sviluppando funzioni organizzative in rete. Poi dovrebbe essere interesse di tutta la comunità censire (senza esigere ovviamente una precisone millimetrica) le organizzazioni informali, sia perché verrebbero alla luce attività molto importanti che potrebbero connettersi ad altre, sia perché il saldo annuale di aperture/chiusure costituirebbe un termometro significativo della vitalità di una comunità
I Centri di servizio al volontariato che potrebbero fungere da connettore e sostegno per questo mondo dell’informale in espansione, sono però governati dalla prima tipologia di organizzazioni che fatica a vedere quello qui descritto come un obiettivo significativo. Quando sono riuscito con dei CSV a censire il volontariato informale abbiamo trovato che le organizzazioni iscritte al registro sono tra il 15 e il 20% di quelle presenti. Il sommerso dunque è il quadruplo di ciò che si vede.
E’ un obiettivo innovativo, poco visto, ma cruciale su cui le fondazioni potrebbero fornire un contributo non irrilevante.
Valutazione dell’impatto. Il tema pare guidare l’evoluzione delle strategie, è presente in ogni convegno, sentito come urgenza, ma cosa e come valutiamo?
Sulla valutazione d’impatto c’è una quantità immensa di indicatori, modelli e definizioni molto raffinati che spesso però a mio avviso si attardano su aspetti non decisivi, moltiplicano gli item rendendo impraticabili i modelli, o al contrario esitano in definizione genericissime in cui sta dentro tutto e il suo contrario, perdendo di vista il peso strategico che ha la scelta di questo anziché di quell’altro indicatore. Più in generale è tutto un dibattito sulla valutazione che non viene mai portato a livello delle scelte strategiche lasciandolo nel limbo degli addetti ai lavori: cosa significa in termini politici utilizzare un metodo, un criterio, un item rispetto a un altro? E poi, al fondo di tutto bisogna porsi il seguente quesito: se i prodotti del lavoro sociale, educativo e psicologico sono talmente complessi che la loro valutazione accurata richiederebbe un investimento di tempo e denaro maggiore di quello necessario per realizzarli, o accettiamo di investire somme adeguate, oppure prendiamo atto che se i sistemi valutativi che abitualmente utilizziamo si arrestano a valutare la periferia del prodotto, li assumiamo con tutte le cautele del caso e iniziamo finalmente a pensare che i problemi sociali si possono comprendere, gestire e valutare solo socialmente, vale a dire attraverso processi sociali di persuasione reciproca e progressiva tra attori.
Approfondimenti
Esprit (Parma)
Welfare a km zero (Trento)
Welcom (Reggio Emilia)
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