Non possiamo più sostenere iniziative occasionali
Professor Landi, il ventennale della legge Amato è, come per ogni genetliaco, un momento di bilanci. A suo avviso qual è oggi il ruolo delle fondazioni e quali le potenzialità?
Acri ha fatto molto per dare un’identità alle fondazioni, in particolare nell’ultimo decennio. La matrice è bancaria e così il personale che ne ha caratterizzato l’avvio. Con il tempo le fondazioni si sono affrancate, con una riduzione progressiva della partecipazione nelle banche e una dotazione di competenze per intervenire in vari settori. Sono presidente da cinque anni e non conoscevo questo mondo se non per studi collegati al fondamentale ruolo di trasformazione del sistema bancario.
Le fondazioni hanno facilitato i processi di aggregazione, dotando il Paese di banche in grado di competere internazionalmente. Questo risultato forse andrebbe riconosciuto maggiormente anche nella lettura della crisi: il sistema bancario italiano è riuscito a subire meno contraccolpi di altri.
Il passaggio decisivo di legittimazione delle fondazioni è stato il riconoscimento come enti privati senza scopo di lucro, con un’appartenenza al Terzo Settore, ispirati da un principio di sussidiarietà, anche se ancora tutto da interpretare. Creato il contesto normativo favorevole, le fondazioni si devono ora mettere in gioco, perché il rapporto diventa tra la società e il settore pubblico, in un sistema in cui il pubblico è stato sempre dominante e determinante - anche in termini positivi - sia nei servizi sociali che nella cultura. Il punto oggi è come interpretare il ruolo del sistema pubblico e come inserirsi in questo processo. Una situazione che richiede nuovi modelli d’intervento. Più regole, più indirizzi e più collaborazione.
Quali modelli operativi stanno emergendo?
Si delineano comportamenti riconducibili ad alcuni modelli di intervento nei settori istituzionali: tre possibili, potenzialmente complementari. Grant making come soggetto passivo che riceve e seleziona progetti. Un secondo di grant making attivo, che significa inserirsi nelle politiche - culturali, di servizi sociali di un territorio -, contribuendo alla creazione di reti, il che presuppone collaborazione tra le istituzioni e le associazioni. Un terzo operating, come promotori di progetti propri a partire dall’individuazione di obiettivi, competenze che si pen- sa di poter possedere o acquisire. Una capacità propositiva e progettuale che fa parlare di venture philanthropy, che caratterizza soprattutto le grandi fondazioni, ma per alcuni ambiti anche quelle che hanno dimensioni e strutture più leggere.
In questa fase in cui la dinamica di cooperazione pubblico-privato si sta connotando come una risposta alla crisi, i modelli si intersecano?
Convivono con graduazioni differenti. Il sistema delle fondazioni è molto vario. Fondazioni di grandi dimensioni, con un territorio di riferimento, capacità ed economie progettuali, competenze interne, riescono a gestire progetti anche complessi e nazionali. Cominciano a esserci progetti condivisi, trainati in modo importante da alcune fondazioni che agiscono in modo più sistemico e creano dei modelli di riferimento. Queste sperimentazioni stanno modificando il modo di operare anche delle fondazioni meno attive, che si lasciano coinvolgere, condividendo esperienze e acquisendo competenze.
Quale equilibrio con gli enti locali?
Noi di dimensioni medio-piccole siamo inseriti in un territorio provinciale e necessariamente chiamati a rispondere, a farci parte attiva nei temi delle politiche pubbliche. Va cercato un equilibrio con gli enti locali, sottraendosi al loro istinto di cercare supporti prettamente finanziari. Il bilancio è all’ordine del giorno, in un momento di riduzione dei trasferimenti centrali. Il ruolo di supplenza in queste fasi di carenze di risorse si accentua. Cerchiamo di non essere passivi e siamo anche in grado di essere propositivi, di sperimentare soluzioni diverse, sostenendo in modo rilevante tutto il mondo associativo. La Fondazione è in grado di fare da ponte intelligente tra soggetti per l’attuazione delle politiche.
Come operate?
Per quanto riguarda l’attività delle associazioni culturali, adottiamo lo strumento dei bandi. Inoltre promuoviamo progetti facilitatori, quali «Modena, città del bel canto», che fa riferimento alla tradizione lirica legata al territorio, richiedendo un coordinamento delle attività delle scuole di canto che non dialogavano tra loro, in funzione di un’offerta formativa più coerente ed efficace.
Nelle arti visive, per le quali siete sotto i riflettori, quali origine, obiettivi, risultati e prospettive della vostra politica?
Il progetto Fotografia è la più rilevante iniziativa che gestiamo direttamente nel settore dell’arte. Fa seguito a esperienze di discreto successo nell’arte contemporanea in collaborazione con la Collezione Peggy Guggenheim, con una formula che si è esaurita nel tempo. Siamo partiti dall’acquisizione di un archivio fotografico veneziano, riferito alle biennali dal 1948 al 1986, facendo leva sulla tradizione fotografica dell’immagine che riguarda artisti del territorio quali Vaccari, Fontana e dall’attività della Galleria civica di Modena. Insomma, un contesto fertile. La collezione contemporanea è un veicolo di scambi, di studio, di formazione. Ci sta consentendo di entrare in contatto con altre istituzioni: a marzo una mostra a Venezia con la Fondazione Bevilacqua La Masa; con la Fondazione di Foligno abbiamo un accordo per il loro nuovo centro costruito nell’ex edificio delle Poste e trattative con il MAN di Nuoro. La rete delle fondazioni è molto utile. Filippo Maggia è sicuramente un direttore capace, con molta esperienza e sta formando un gruppo di giovani per dare continuità. Siamo partiti in modo pionieristico e daremo un assetto più stabile con una società strumentale, una fondazione da costituire quest’anno, sia per il contemporaneo, che per la fotografia storica, che ci aiuti dal punto di vista gestionale-organizzativo. A Modena si era formato il Foto Museo Panini per il patrimonio fotografico della famiglia Panini, del Comune e di altri depositi; vorremmo conservare questo tratto, coniugandolo con il contemporaneo. Una fondazione con un programma pluriennale di mandato e una sua autonomia, Noi avremo un impegno erogativo annuale. Contiamo anche che si possa sviluppare un po’ di attività di mercato, non esasperata ovviamente.
Avete una collezione?
Di fotografia e video contemporanei: oltre 600 lavori realizzati da 106 artisti, di cui 71 stranieri e 35 italiani. È stata costruita seguendo il tracciato delle aree geografiche: l’Estremo Oriente e l’Europa dell’Est, alle quali si è recentemente aggiunta una sessione Africa e Medio Oriente. Dopo alcuni anni di intensa attività esprimiamo una presenza incisiva a livello cittadino e nazionale. Ora l’obiettivo principale è la formazione: a ottobre partirà un master biennale sulla fotografia d’arte e di ricerca. Prevediamo una maggiore attenzione ai costi, ma continueremo con le acquisizioni, poiché è importante dare corpo alle collezioni.
Molte fondazioni oggi scelgono come voi di agire come produttori di cultura, con scelte impegnative anche di lungo periodo, attraverso attività direttamente gestite con propri enti strumentali. In un momento in cui i territori hanno difficoltà a sostenere l’esistente, cosa può generare questo fenomeno?
Tendo a darne una lettura positiva anche se ci sono aspetti critici e avvertenze da leggere nelle diverse situazioni. L’idea che le fondazioni possano essere più operative e gestire propri progetti a favore di città o territori in cui agiscono è fattore di forte dinamismo: hanno una flessibilità che non ha confronti rispetto al pubblico.
Voi non avete i problemi di rappresentanza che ha il pubblico.
Abbiamo fatto una gara tra tre costruttori e siamo partiti. Riusciamo a cogliere opportunità difficili per il settore pubblico, per la responsabilità degli amministratori e per un sistema decisionale e operativo che è molto più complesso. Le fondazioni possono inserirsi in questo tipo di progetti, non tanti, perché richiedono strutture per la gestione. Abbiamo 16 dipendenti e attiviamo project manager o consulenti per le professionalità specifiche di cui necessitiamo. Siamo parte attiva nell’intervento di riqualificazione dell’ex ospedale Sant’Agostino di Modena, ora sede di mostre temporanee, destinato a trasformarsi in un nuovo luogo della cultura: ospiterà un polo bibliotecario, un centro per la fotografia e l’immagine e uno per l’internazionalizzazione, in collaborazione con l’ Università di Modena e Reggio Emilia, con laboratori linguistici e funzioni per scambi di studenti e ricercatori con l’estero. Verificheremo sul campo come tutto l’insieme funzionerà. La proprietà è tutta nostra salvo una parte demaniale, concessa perpetuamente all’Università. Interverremo su tutto e Gae Aulenti sta seguendo il recupero. Avremo il progetto definitivo a giugno. Esecuzione entro un anno. Attivazione a metà 2012. Messa a regime nel 2015.
Come si colloca questo polo di formazione e la cultura nel progetto di territorio?
Siamo partiti dall’idea che la straordinaria Biblioteca Estense non potesse rimanere confinata in locali chiusi al pubblico. Abbiamo l’ambizione di essere riconosciuti come un luogo che punta sulla conoscenza, sulla valorizzazione del patrimonio storico, delle proprie istituzioni. Investiamo per il momento 50 milioni di euro attingendo a riserve e con un impegno pa- trimoniale, dato che l’immobile è di nostra proprietà. Produr- remo cerchi concentrici anche nel tessuto urbano, la piazza si dovrà trasformare e così pure il Palazzo dei Musei.
Avete rivisto la composizione complessiva delle vostre erogazioni?
Siamo sostanzialmente stabili sui pilastri. Non siamo particolarmente colpiti dalla situazione finanziaria. Utilizziamo un po’ di riserve e di fondi accantonati. Per due o tre anni saremo in grado di stabilizzare questo livello di risorse, intorno ai 30 milioni di euro di erogazioni annuali, anche nella ripartizione settoriale. Usiamo riserve integrative per il settore sociale.
Come vi muovete nella valutazione dei risultati?
Abbiamo realizzato un progetto partecipato di valutazione nella ricerca con la Fondazione Padova e Rovigo, molto capace in questo campo. Come loro, investiamo percentuali alte nella ricerca: il 21% delle risorse, rispetto alla media nazionale di circa 7-8%. Si tratta di valutazione ex-ante, con referee a più stadi, settoriali e internazionali. Abbiamo costruito una macchina articolata. Questo si lega al tema della cultura della conoscenza, di cui si parla tanto.
E la valutazione dell’impatto sociale degli investimenti? Qualcuno la definisce ancora una categoria dello spirito...
Ci sono alcune iniziative, ma in ambito culturale le interrelazioni sull’innovazione sociale, sullo sviluppo economico sono più difficili da individuare senza superficialità. Ci si limita ad alcuni indicatori poveri quali la partecipazione, i possibili indotti economici ai festival. La Fondazione La Spezia ha fatto un approfondimento serio. I tentativi sono dei carotaggi; lo abbiamo fatto sul bando scuola, con un’attività di valutazione con questionari, incontri con le scuole, molto onerosa. Replicarla o estenderla significa mettere in campo energie che non abbiamo. Questo è un problema. L’ Acri varerà un progetto sul tema.
Un consiglio alle realtà culturali che richiedono finanziamenti.
Chiarezza d’intenti leggibile dall’esposizione del progetto, coerenza rispetto agli impegni di risorse, collegamento con quanto già viene prodotto in una città. Non è infrequente vedere un progetto culturale non adeguatamente presentato. Molte iniziative potrebbero essere raccordate meglio, a partire dai proponenti che debbono sforzarsi da dialogare. Ci sono consulte delle associazioni culturali, ad esempio, partecipate da molte associazioni, che non sanno esprimere livelli di promozione congiunta. C’è ancora una tendenza a finanziare in modo un po’ polverizzato e non possiamo più sostenere iniziative distribuite in modo occasionale. Chi si presenta con questa consapevolezza fa un lavoro preparatorio che induce a ipotizzare il successo della realizzazione.
In questo periodo di grande trasformazione quali sono i temi aperti da osservare con attenzione?
La trasformazione del sistema dei servizi sociali o del welfare territoriale, condiziona tutto il resto. Ci sono diverse strade, tutte difficili. Coinvolgono il privato, le famiglie, una maggiore responsabilità e consapevolezza sul costo dei servizi. La risposta non è la beneficenza. Dobbiamo passare dai discorsi generali all’azione, avviando sperimentazioni. Il mondo delle fondazioni può essere interessante anche da questo punto di vista: cercando risposte ad alcuni bisogni specifici, che possano diventare anche punti di riferimento ed esperienze esemplari. Cosa vi serve per riuscire ad agire al meglio il vostro ruolo? Ritengo non ci sia un problema normativo. E nemmeno fiscale. C’è stato un cambiamento epocale negli ultimi dieci anni. Le fondazioni devono mettere in campo una lettura dei fenomeni sociali e assumersi con coraggio i rischi del coinvolgimento.
❑ Andrea Landi è Professore ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso la facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Dal 2005 è Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.
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(X Rapporto Annuale Fondazioni)