L'apprendista stregone
Il 30 marzo 2011 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di Legge Delega per la riforma del Libro Primo del Codice Civile, ovvero della disciplina degli enti operanti in quello che comunemente viene definito Terzo Settore e che il mondo anglosassone chiama, appropriandosi di una terminologia che viene dai nostri antenati latini, no profit o not for profit.
Si tratta indubbiamente di un fatto encomiabile, perché era da diverse legislature che se ne parlava e che dal mondo del Terzo Settore si chiedeva a gran voce una riforma delle norme contenute nel Codice Civile di settant’anni fa, riforma che tenesse conto del tempo passato e delle mutate condizioni sociali e del mercato stesso. Ci si era augurati già nel 2001, dieci anni fa, quando venne approvata la Legge Delega per la riforma del diritto societario, che immediatamente seguisse questa riforma, ma le vicende politiche e delle Legislature, nonché le priorità nazionali ed internazionali, ne avevano ritardato l’approvazione, anche se la proposta di Legge Delega era stata sempre ripresentata.
Ora, quindi, che il Governo ha approvato il Disegno di Legge Delega, c’è chi innalza al cielo grida di giubilo.
Tutto bene, perciò? Forse non del tutto, a parte il fatto che non si può non essere d’accordo sul fatto che si sia finalmente posto mano ad un ringiovanimento indispensabile di questa normativa, che in Italia riguarda milioni di persone e di volontari e svolge un ruolo indispensabile, nello scenario della sussidiarietà, in tutti i settori del socio-culturale.
Ricordate l’apprendista stregone della favola, poi musicata e riprodotta magistralmente in un cartone di Walt Disney che tutti abbiamo visto da bambini? Era un volonteroso giovane che, lasciato solo a pulire il laboratorio del grande mago, ne combinava di tutti i colori, dei veri e propri disastri.
Non voglio qui sostenere che l’apprendista stregone sia già al lavoro, desidero solamente mettere in guardia i parlamentari che affronteranno l’esame del testo e gli esperti che dovranno poi scrivere il testo dei decreti delegati di attuazione dai rischi che una simile operazione comporta.
In queste poche righe voglio soltanto iniziare ad esprimere le mie personali perplessità, che nascono da decenni di studio ed applicazione pratica nel Terzo Settore, periodo che mi ha permesso di vedere oltre le norme di legge le luci e le ombre, le opportunità e le criticità. Mi auguro che chi avrà la responsabilità di attuare questo encomiabile desiderio di riforma si muova con molta competenza, delicatezza e conoscenza pratica della materia, affinché non si ripeta ciò che è successo con il riordino tributario degli enti non Profit, nel lontano 1997, con il Decreto Legislativo 460/97, la cosiddetta Legge Zamagni, bella sul piano della tecnica legislativa, ma che mancando di riscontro con la vita pratica delle nostre fondazioni ed associazioni ha creato non pochi problemi.
Iniziamo quindi prendendo spunto da uno dei principi contenuti nello schema in esame, che più ha incontrato i favori della stampa: le fondazioni ed associazioni, abbiamo letto, potranno svolgere attività d’impresa e la Legge Delega dovrà dettarne modalità e limiti.
Intanto, va subito ricordato che già oggi la normativa tributaria consente alle fondazioni l’esercizio di attività commerciali, purché strumentali ed inferiori, quanto ai ricavi, al cinquanta per cento degli introiti annuali. Bene, ma siamo certi che sia una cosa buona permettere ad una fondazione od associazione di operare sul mercato come se si trattasse di una società commerciale? Non abbiamo già la normativa sull’Impresa Sociale? Non era sufficiente ? Si dirà che ogni ente no profit deve essere libero di autofinanziarsi anche mediante attività d’impresa, purché non si snaturi il suo DNA non lucrativo. Ma allora, si potrebbe rispondere, esso farebbe concorrenza sleale alle imprese vere e proprie, avendo minori oneri anche fiscali, si potrebbero insomma alterare le regole del mercato e della libera concorrenza.
Si dirà che le risorse non bastano, specialmente in periodi di crisi economica. Ma non sarebbe più giusto e trasparente disciplinare meglio la struttura complessa “ente non profit/società strumentale”, che già così bene sta operando, in molteplici casi in tutto il Paese ?
E ancora: non sarebbe meglio lasciare il profit ed il non profit ben separati, in un Paese in cui i furbi sono tanti ed i controlli difficoltosi?
Corollario della possibilità di esercitare attività d’impresa, vi è l’applicazione per quanto possibile dello statuto dell’imprenditore, cioè di tutte quelle norme che disciplinano l’attività e le responsabilità del medesimo. Ma ciò significa che gli amministratori delle fondazioni ed associazioni che esercitassero attività d’impresa potrebbero essere soggetti persino al fallimento, in caso di insolvenza.
Siamo certi che si troverebbero molte persone disposte ad accollarsi un rischio tale non per un’attività lucrativa e ben remunerata, ma per un’attività non profit, nella quale mettono tempo e denaro per un interesse generale ?
Come si vede, quelle qui esposte non sono obiezioni di principio alla tanto attesa riforma, sono solo dubbi che hanno la speranza di mettere in guardia l’apprendista stregone, affinché si renda conto che sta operando in un campo pericoloso, in difficile equilibrio, ma di valore immenso per il Paese.
Ci torneremo prossimamente.
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