Una crisi sprecata?
Accadde esattamente un anno e mezzo fa. Diciotto mesi precisi precisi. Andrea stava per compiere cinque anni, Giulia scalpitava nel pancione di Katty, ed io ero al telefono del mio studio con la casa editrice con cui avevo sempre sognato di pubblicare. L’aria era calda, tipica del giugno ferrarese, ed una torre di controllo smistava il traffico aereo delle zanzare. Avevo già pubblicato con editori importanti, sia di tipo scientifico sia di più ampia divulgazione, ma questo era quello che volevo da sempre. La crisi economico-finanziaria del nostro Paese sembrava inarrestabile ed ero convinto che per superarla servissero non solo interventi bancari e finanziari, ma soprattutto idee e pensiero. «Caro Professore – mi disse – pensiamoci ancora un po’ se pubblicare il suo lavoro». Iniziai a sudare nervosamente, e non solo per il caldo e per le zanzare che mi giravano intorno. Paff. Mancata. «Guardi che se il lavoro non le piace può dirmelo serenamente, sono editor di un journal internazionale, conosco le regole del gioco». «No – rispose – mi piace molto, ma vede, lei le cose le scrive un po’ troppo chiaramente, smussi gli angoli, è un momento delicato, ci sono certi equilibri…». Il sudore si ghiacciò. Stavo parlando con quelle stesse forze dell’immobilismo e della conservazione che volevo contrastare. Fu in quel momento che decisi di cambiare editore e di dare al libro il titolo che poi ebbe: la crisi sprecata.
Le crisi sono parte integrante dell’economia. E servono a segnalare che qualcosa non va. Un po’ come la febbre, che ci dice che nel nostro organismo c’è un qualche problema, e che bisogna porvi rimedio. Lo stesso fa la crisi. Ancor di più in un caso come questo, in cui ci si trova a fronteggiare una crisi che non è congiunturale ma è strutturale. Ma ciò non significa che non possa essere superata: a patto che si vogliano porre in essere quelle modifiche strutturali che il mutato contesto ci richiede. Anzi, le crisi storicamente sono proprio i momenti del cambiamento, in quanto solo in tempi di crisi si riescono a contrastare le resistenze di coloro che hanno privilegi o rendite di posizione. Questa crisi dunque era ed è una grande opportunità per fare quelle riforme strutturali indispensabili per una migliore gestione del patrimonio culturale del nostro Paese, che continua ad essere uno tra i beni più preziosi e meno valorizzati del nostro sistema economico e sociale.
Oggi la domanda è: gli attuali modelli di governance e di management sono adeguati per favorire la valorizzazione del patrimonio culturale del Paese, generando valore sociale, occupazione e crescita? Personalmente penso di no. Il modello di governance è molto chiaro: ognuno agisce da solo. Ed il modello di management è altrettanto chiaro: ricevo soldi pubblici e li spendo. Sono entrambi inadeguati, incoerenti non solo con i tempi ma anche con le caratteristiche stesse del nostro patrimonio culturale: diffuso, dialogante e radicato nel territorio. La distanza tra il modello di governance (singole istituzioni, separate tra di loro) e le caratteristiche del nostro patrimonio culturale (diffuso, radicato, dialogante) è stridente. Ed il modello manageriale è ancora legato ad una visione burocratica ottocentesca, quando invece è necessario dare autonomia e liberare energie per dar vita ad iniziative in grado di generare risorse proprie che affianchino i decrescenti contributi pubblici. Ma in questi anni il riequilibrio dei minori contributi pubblici non è avvenuto generando maggiori ricavi autonomi: è avvenuto tagliando continuamente i costi. Anzi, più precisamente, tagliando i costi del personale attraverso il blocco del turnover. Il ché ha significato bloccare ciò di cui c’era maggiore bisogno, ossia l’ingresso dei giovani, portatori di nuove idee, energie e conoscenze. Nel settore culturale la crisi la stiamo facendo pagare ai giovani: è miope in termini economici, ed è inaccettabile in termini etici.
Per ricercare un nuovo equilibrio economico è dunque necessaria un'altra via, e questa può essere solo quella di mettere in comune i costi e di fare massa critica per produrre ricavi autonomi. Serve cioè costruire dei sistemi culturali territoriali. E con il cambiamento della governance serve anche un nuovo modello di management. Un modello manageriale "multi-scala", che si basi su criteri di apertura, partecipazione e trasparenza e su logiche di partenariato con i soggetti privati, nel quale le diverse attività gestionali si realizzino, a seconda dei casi, al livello "micro" (ossia della singola istituzione) oppure al livello "meso" (ossia del sistema culturale territoriale nel suo complesso). Così si riducono i costi di gestione, attraverso la condivisione delle funzioni gestionali (amministrative, di comunicazione e promozione, di infrastruttura) e delle risorse operative (persone, strutture e tecnologie). E così si ottiene quella massa critica per produrre ricavi autonomi (attività commerciali, progettualità internazionale, crowdfunding e fundraising innovativo, sistemi di membership, bigliettazione integrata).
Ma la crisi è stata dunque davvero sprecata? Oppure abbiamo avuto in questi mesi delle spinte verso il cambiamento? Rispetto a diciotto mesi fa, mi pare ci sia qualche motivo in meno di pessimismo. A livello statale abbiamo avuto due importanti riforme. La cosiddetta riforma sull’art bonus, che non è certamente una riforma strutturale, ma che sotto il profilo valoriale favorisce ed incentiva la presenza dei privati nei processi di finanziamento del settore culturale. E la riforma del Mibact, che ha invece caratteri strutturali, che ridisegna l’assetto istituzionale del ministero sia nelle sedi centrali sia sul territorio. Una riforma che va nella giusta direzione nel dare maggiore importanza all’educazione ed alla ricerca, all’arte ed all’architettura contemporanea, nel coniugare cultura e turismo per favorire sviluppo economico ed occupazione, nel prevedere la creazione di sistemi museali sul territorio tra musei statali e non statali, sia pubblici che privati. Una riforma che invece dovrà essere giudicata in fase di implementazione per quanto riguarda la territorialità e l’autonomia speciale di singoli musei ed istituti culturali. La riforma istituisce 17 poli museali regionali. Ho seri dubbi che la dimensione ottimale per la costituzione di sistemi culturali territoriali sia quella regionale, così come non penso che la delimitazione debba avvenire a partire dai confini amministrativi. L’auspicio è dunque che l’istituzione dei poli museali regionali sia il primo passo per la successiva definizione di sistemi culturali territoriali di più ridotte dimensioni, coerenti ed omogenei con il patrimonio culturale locale. Che sia cioè l’inizio e non la fine di un percorso. Ed il ragionamento è non dissimile per quanto riguarda l’autonomia speciale dei 20 musei ed istituti culturali. Il provvedimento va bene se questi si interpretano quali pivot di un sistema culturale territoriale, non va bene se in questo modo li si rende avulsi dal contesto. Molto del valore di questa riforma si vedrà dunque in fase di concreta implementazione. Tocca anche a noi far sì che questa crisi non sia sprecata, e che il cambiamento necessario sia realizzato. A proposito, tre mesi fa ho rincontrato quell’editore, ad un festival nel quale si presentava il mio libro quale caso di successo. Gli ho stretto la mano, l’ho salutato cordialmente, e, chissà perché, mi è venuta in mente la pubblicità di una nota carta di credito.
Fabio Donato è Ordinario di Economia Aziendale, Direttore del Master in Cultural Management "MuSeC", Università di Ferrara
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