Quanto conta la nostra cultura? Dai progetti di mappatura ai filoni di ricerca più innovativi
A livello nazionale, i paesi che hanno provato a “mappare” il mondo delle industrie creative e culturali e a quantificarne l’impatto in termini di occupazione o contributo al PIL, su ispirazione del Regno Unito, sono ormai numerosi[1]. A livello europeo, il lavoro svolto da ESSnet-Culture tra il 2009 e il 2012 permette oggi all’ufficio statistico europeo (Eurostat) di misurare in maniera più precisa e comparabile i settori culturali e creativi. Proprio lo scorso aprile, Eurostat ha riunito il Culture Statistics Working Group per presentare gli ultimi dati pubblicati che includono, per la prima volta, informazioni sulle condizioni di lavoro dei “creativi”, come la percentuale di autonomi o la percentuale di occupati con un secondo lavoro rispetto alle stesse quote nell’occupazione totale[2]. Ma è soprattutto a livello locale che si sta manifestando il più grande interesse per questi temi, perché è proprio nelle aree urbane che i settori culturali e creativi tendono a concentrarsi, beneficiando così degli effetti dell’agglomerazione. Di conseguenza, è in prossimità di queste aree che la cultura riesce generare gli impatti più evidenti (anche se non sempre di facile misurazione), come una migliore immagine del territorio, un’accresciuta capacità di attrazione di persone altamente qualificate, lo sviluppo di nuove economie o un maggior orgoglio locale. Liverpool è stata città pioniere in termini di valutazione dell’investimento culturale a livello locale, grazie a una metodologia ad hoc sviluppata in occasione della sua esperienza come Capitale europea della Cultura nel 2008. Il lavoro ha poi ispirato altre città che hanno ottenuto lo stesso titolo in anni successivi come Essen con la regione della Ruhr nel 2010, Turku nel 2011, Košice nel 2013, Mons nel 2015, ma anche Perugia, tra le città preselezionate al titolo per l’anno 2019. Alcune regioni, come il Piemonte o i Paesi Baschi, con i loro osservatori culturali, mostrano inoltre la volontà di misurare e capire gli impatti dell’investimento culturale in maniera sistematica, al di là di singole iniziative.
Accanto al filone di studi che potremmo definire “governativo”, esistono ulteriori aree di ricerca che - lentamente ma progressivamente - esplorano il valore, l’impatto o i bisogni dei settori culturali e creativi cercando di attenersi maggiormente alle specificità di questi settori, tra cui la loro valenza allo stesso tempo umana, sociale ed economica. Ne abbiamo indentificato (in maniera certamente non esaustiva) tre. Una prima area riguarda gli studi che utilizzano nuove impostazioni teoriche o applicazioni metodologiche su dati “tradizionali” provenienti da sondaggi, per esempio per valutare l’impatto dei consumi culturali sulle abitudini di riciclo[3], sul risparmio energetico[4] o sul consumo di cibo biologico[5]. Una seconda area include quei lavori di ricerca che affrontano tematiche “note” utilizzando dati sperimentali. La fondazione Nesta, con sede a Londra, è un noto precursore di questo approccio. Nesta ha per esempio realizzato una mappatura innovativa (e più esaustiva) del settore dei videogiochi grazie all’uso combinato di statistiche ufficiali e di dati provenienti dal web[6] e analizzato annunci di lavoro online per identificare le competenze più ricercate nei settori culturali e creativi[7]. Ma ricerche molto interessanti si trovano anche su riviste accademiche di tutto rispetto come Scientific Reports del gruppo editoriale Nature, che nel 2013 dimostrava il potenziale di flickr per stimare le visite turistiche in oltre 800 attrazioni naturali e culturali nel mondo[8]. Una terza area - forse quella più sperimentale - intende esplorare i cosiddetti big data provenienti da varie fonti – dai registri amministrativi, al web ai social media - per capire che tipo di informazioni estrarne in tema di cultura. Per esempio, Eurostat ha analizzato le visite alle pagine Wikipedia di circa 1000 siti Unesco come possibile proxy del “consumo culturale”[9], dando ai potenziali utilizzatori di questi dati la possibilità di inviare commenti in merito. Sempre Eurostat, ha appena avviato una collaborazione con lo European Grouping of Museum Statistics (EGMUS) al fine di migliorare le statistiche sui musei (numero, occupazione, visitatori, volontari, ecc.) – collaborazione che renderà senz’altro necessario uno sguardo più attento alle fonti amministrative nazionali.
Un recente progetto europeo realizzato dal Joint Research Centre della Commissione europea - il Cultural and Creative Cities Monitor (CCCM)[10] - mette in qualche modo insieme questi tre approcci, dando piena attenzione agli ecosistemi urbani per le ragioni di cui si diceva sopra. Si tratta di un nuovo strumento che permette il monitoraggio, la valutazione e il benchmarking di 168 città in Europa attraverso l’uso di 29 indicatori quantitativi e di informazioni qualitative relative a tre aree[11]: la prima - Cultural Vibrancy - rileva la presenza di luoghi culturali come musei, teatri e cinema e il loro numero di visitatori, per stabilire quanto sono culturalmente vivaci queste città; la seconda - Creative Economy - misura l’occupazione nei settori culturali e creativi per capire come la cultura si “traduce” in economia creativa; la terza - Enabling Environment - valuta come le città supportano la cultura e l’economia creativa, ad esempio se sono state in grado di sviluppare un ambiente aperto e tollerante nei confronti della diversità. I 29 indicatori - che si basano sia su statistiche ufficiali che su dati sperimentali provenienti dal web (TripAdvisor) - sono poi aggregati in un unico C3 Index nell’obiettivo di sintetizzare la performance creativa e culturale delle città europee e renderne possibili ulteriori analisi. Per esempio, le città che registrano i risultati migliori sul C3 Index sono anche quelle che sono cresciute di più nel periodo 2009-2013 in termini di PIL annuale pro-capite, mostrando quindi una certa resilienza durante anni di profonda crisi[12].
Ci sono vari tentativi interessanti (ma forse ancora troppo timidi) di utilizzare nuovi dati e metodologie per capire il valore e i molteplici impatti della cultura. È necessario proseguire per questa strada non solo perché la produzione di statistiche ufficiali costa ma soprattutto perché i dati potrebbero essere più appropriati se rilevati dove i fenomeni di interesse “accadono”. Anche se esiste ancora un importante digital divide, il mondo digitale è infatti destinato a diventare uno dei principali canali di trasmissione ma anche di creazione di contenuti culturali e creativi. Il web, inoltre, può fornire delle informazioni molto interessanti, solitamente non reperibili dalle statistiche ufficiali come la presenza, la distribuzione e la “densità” di luoghi di cultura in aree urbane centrali o periferiche, grazie all’uso di dati geo-localizzati. In parallelo ci sono almeno altre tre vie complementari da intraprendere: innanzitutto, resta necessario stabilire una base di confronto comune invitando città, regioni e Stati membri a fornire stime economiche “modulari”. Queste includerebbero, da un lato, un “totale comparabile” magari in linea con la definizione di settori culturali e creativi proposta da ESSnet-Culture nel 2012 e adesso aggiornata; e, dall’altro, un totale relativo ad eventuali altri settori che si vogliono aggiungere alla definizione per meglio riflettere le specificità locali. Per i settori aggiuntivi, sarebbe molto sensato utilizzare l’approccio proposto nel Regno Unito[13] (e adottato anche dalla Fondazione Symbola per il comparto creative driven) che stabilisce se includere o meno certi settori in base alla presenza di un certo livello di occupati con mansioni creative. Come seconda cosa, e a supporto della prima, occorre proseguire con la raccolta di statistiche ufficiali lì dove le fonti alternative di dati non sono (ancora?) appropriate. Tutt’oggi ci sono delle carenze di informazioni molto gravi che riguardano i settori di attività e le occupazioni (non sempre sufficientemente dettagliati da permettere lo studio incrociato dell’occupazione per settore di attività, per esempio) e la partecipazione culturale nelle sue diverse forme e modalità (online o offline, ricettiva o partecipativa, ecc.). Infine, e nell’obiettivo di sfruttare al meglio fonti alternative di dati, andrebbe sviluppata una riflessione a livello europeo per capire come dialogare e collaborare con imprese private quali Facebook, Twitter, Google, TripAdvisor, Airbnb, Booking e Amazon che detengono informazioni cruciali su domanda e offerta di cultura, per lo più non accessibili. Se da un lato, l’accesso rischia oggi di diventare ancora più complesso a causa delle nuove regole sulla privacy, dall’altro, potrebbe essere nell’interesse stesso di queste grandi imprese dare accesso ad alcuni dati, a supporto delle politiche pubbliche e in un’ottica di responsabilità sociale.
Estratto dal rapporto Io sono Cultura 2018, realizzato in collaborazione con Fondazione Symbola
http://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/bitstream/JRC107331/kj0218783enn.pdf