Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

A proposito delle «linee programmatiche» del ministro Bray

  • Pubblicato il: 27/05/2013 - 11:36
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Michele Dantini

Le Linee programmatiche esposte dal ministro Massimo Bray in audizione congiunta alle Commissioni Cultura di Camera e Senato costituiscono un documento preliminare, a tratti ancora instabile, a tratti apprezzabilmente dettagliato, di ciò che il MiBAC si propone di fare. Apertura alle partnership pubblico-private, regolamentazione dei rapporti di partenariato, fiscalità di vantaggio per i privati che investono nella manutenzione del patrimonio, ripristino dei Comitati tecnici del ministero, sostegno alla migliore diplomazia culturale.
L'adesione al principio di sussidiarietà è destinata a incontrare il favore di quanti chiedono che all'apparato pubblico di tutela subentri l'iniziativa di «corpi intermedi», fondazioni e comunità locali. L'enfasi sulle competenze storico-artistiche, sulla necessità di preservare i centri storici e contrastare il consumo di suolo risulterà invece gradita ai sostenitori della tutela pubblica, gli ambientalisti e i teorici della decrescita. Appaiono particolarmente opportune le stringenti misure previste sul prestito delle opere e la loro circolazione e il ripristino dei Comitati tecnici del ministero, soppressi dal governo «tecnico» con risibile vantaggio contabile.
Sul punto decisivo della «valorizzazione» emergono ambivalenze e oscillazioni che converrà risolvere al più presto. Esemplifichiamo. Si stabilisce con qualche solennità che il «patrimonio» non ha caratteri di «merce». Al tempo stesso si prevede che solo «ove la gestione imprenditoriale dei luoghi di cultura dovesse risultare non profittevole, potrebbe ipotizzarsi la concessione a soggetti non lucrativi». Come conciliare le due posizioni? L'applicazione di norme di buona amministrazione non implica tout court adesione al criterio di profitto né sbrigative «messe a reddito» del «bene pubblico». La differenza è sottile ma cruciale. La Costituzione italiana prescrive che sia la Repubblica a provvedere alla conservazione di opere d'arte, edifici storici e paesaggio. Il patrimonio ha «interesse generale» e concorre, con scuola e università, alla rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale» che pregiudicano il «pieno sviluppo della persona». Non è una collezione di beni sublimati e avulsi ma un'istituzione educativa tra le altre: la connessione tra tutela, inclusione e diritto alla cittadinanza appare dirimente.

Particolare attenzione, nelle Linee programmatiche, è riservata all'architettura contemporanea e al suo inserimento in contesti abitativi preesistenti. «Il Ministero non è contrario alle nuove costruzioni», si legge. «E' contrario alle nuove costruzioni 'vecchie', cioè a un modo di costruire che sembra rimasto agli anni Settanta del secolo scorso. E' contrario all'idea antiquata di una certa imprenditoria del mattone che pensa ancora nella logica dell'edilizia di espansione». Si cercherà quindi di privilegiare, da parte del MiBAC, la riqualificazione di aree dismesse e costruire edifici contemporanei nelle periferie, evitando che disarmonie e contrasti architettonici costellino centri abitati non di rado millenari. Assai più vaghe le indicazioni relative all'arte contemporanea, riconducibili a un'istanza di «qualità» che lo Stato dovrebbe preoccuparsi di incoraggiare e certificare: se possibile, aggiungiamo, promuovendo il dialogo tra istituzioni universitarie, musei pubblici e centri di ricerca.
Il limite più significativo delle Linee programmatiche sembra essere nell'impostazione convenzionale più che nel singolo argomento. Da troppo tempo il MiBAC interpreta la politica culturale come una politica del consumo, preoccupandosi prioritariamente (per esigenze di cassa) di ampliare quantitativamente la domanda. In altre parole: amministra il patrimonio come potrebbe farlo un dicastero del Turismo, cui infatti oggi è associato. L'assunto è: la migliore politica è quella che fa più «fruizione». Il criterio quantitativo è certo importante, connesso alla missione educativa del ministero: ma non dovrebbe essere esclusivo. Progettare impieghi a elevata specializzazione o avviare processi di qualificazione delle risorse umane è forse meno importante? Chi ha stabilito che il «patrimonio» ha inevitabilmente a che fare con il tempo libero; e la «cultura» con dimensioni ricreative e ornamentali - e non (poniamo) con la ricerca, l'innovazione cognitiva, sociale e tecnologica, il lavoro dignitoso?
«Valorizzare» correttamente il patrimonio non equivale, per lo Stato, a incoraggiare la produzione di mostre confuse e innecessarie, ma a accompagnare progetti di ricerca in ambiti così diversi tra di loro, eppure potenzialmente convergenti, quali la storiografia, la softwaristica, la comunicazione culturale e il social media editing, la conservazione. Una politica della cultura ambiziosa e lungimirante presuppone, a parere di chi scrive, una continua ridefinizione del proprio «oggetto», rapporti organici con le politiche sociali e del lavoro e la costante innovazione di «prodotto» (o di «servizio») che solo salde connessioni al mondo della ricerca (di base e applicata) possono assicurare.
Infine una proposta. Perché non prevedere un tavolo di lavoro dedicato alla ricognizione dei nuovi profili occupazionali associabili alle competenze artistiche, storico-artistiche e del restauro considerate dal punto di vista delle nuove tecnologie? All'ambito delle Digital Humanities inteso in senso ampio e progressivo, con riferimento alle buone pratiche ambientali e ai principi altereconomici? Il MiBAC riconosce «insostituibili i soggetti privati» e necessario l'affidamento in concessione di parti del patrimonio: siti archeologici minori, piccoli musei, borghi storici, costituendi parchi agricoli, etc. Bene. La domanda è: quale ruolo si ritaglia lo Stato? Può scegliere tra i ruoli del mero licenziante che fa cassa e quello di educatore e regolatore virtuoso, pronto a incoraggiare la concorrenza, a premiare idee innovative e rispettose o iniziative responsabili maturate nel mondo delle start up sociali. Chi ha interesse, se non lo Stato licenziante, a qualificare i servizi e a «formare» i licenziatari tenendo alta l'asticella delle competenze? A conferire specifica sostanza politico-culturale a principi di etica pubblica? Per ammissione dello stesso ministro gli ambiti della «cultura» e della tutela sono strettamente connessi a questioni di prestigio e reputazione internazionale del paese. Occorre dunque impedire che il sistema delle concessioni avvantaggi oligopoli locali, rendite di posizione e clientele degenerative. Oggi tuttavia accade spesso il contrario.

Fonte: L’HUFFINGTON POST


© Riproduzione riservata