L'intangibile e la cultura del nostro abitare (verso nuovi 'matrimoni')
Dalla proposta Safeguarding and enhancing Europe’s intangible Cultural Heritage da parte del Sen. Paolo Corsini all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, al position paper lanciato da DiCultHer, mediante una consultazione on-line. Un’occasione per tornare a ragionare, a riflettere, a scuoterci da consuete posizioni, per mettere in discussione lo stesso termine di ‘patrimonio immateriale’. Su questi argomenti ci confronteremo a Mantova, durante l’ArtLab organizzato dalla Fondazione Fitzcarraldo negli ultimo giorni di settembre
Ma per parlare di patrimonio immateriale dobbiamo innanzitutto abbattere le mura del patrimonio materiale, ovvero non possiamo più procedere secondo le categorie alle quali lo Stato, l’Unesco, e altre istituzioni ci hanno costretto, nel compito, peraltro giusto, di ‘catalogare’ i beni, nel riconoscere loro un valore specifico. I monumenti, i musei, i luoghi del nostro senso, esistono perché attraversati da processi ‘immateriali’ che li rendono significanti: e in questo senso dovremmo quasi capovolgere la tradizione novecentesca che prima si è inventato il patrimonio materiale (la fisicità tangibile), per poi riconoscere solo in un secondo momento la valenza dell’immateriale. Se non smontiamo questo meccanismo (sul cui stato ultimo si veda Ciccio Mannino), se non capiamo che i due mondi siano realtà interconnesse, che lo spazio assume senso solo se attraversato da processi dinamici, oltre lo storicismo, rimaniamo fermi nella conservazione, chiusi dentro le nostre stesse vetrine che ci siamo creati.
Per fare questo dovremmo rigenerare innanzitutto le oikonomie, secondo una nuova valenza che sappia però riprendere il valore iniziale della casa, dell’oiikos da abitare; dobbiamo ritrovare regole fondate ‘su relazioni sociali reciproche dentro spazi nazionali, regionali, locali’ (come dicono Julie Froud e Karel Williams), dentro quegli spazi, anche della memoria, che sono il nostro spazio, nelle sue plurime valenze culturali.
E’ per questo che il primo livello, il primo strato di patrimonio immateriale è dato dal pensiero contemporaneo, che, data la sua crisi, spesso si rifugia nel passato per ovviare al silenzio del presente: serve un percorso per discutere noi stessi, il rapporto fra spazi e modi di abitarli, una profonda riflessione sul vero patrimonio intangibile - la nostra visione della cultura come base imprescindibile per immaginarci un futuro - da curare in questo momento di crisi del modello europeo. Dobbiamo, come dice Piero Dominici, iniziare ‘a prendere finalmente consapevolezza che la questione è culturale e che bisogna ripartire dal “fattore culturale” per tentare finalmente di costruire un senso di appartenenza ad una comunità aperta e inclusiva che sappia, non soltanto adattarsi, ma gestire la (iper)complessità del cambiamento, le asimmetrie sempre più marcate e i nuovi conflitti, l’evoluzione tecnologica e culturale’.
Per questo abbiamo profondamente bisogno anche di ripensare il nostro vocabolario, uscendo dall’immobilismo conservativo (e maschile) dei patrimoni, generando nuovi ‘matrimoni’ (al femminile), che privilegino la cura del processo nella sua interezza.
Dovremmo innanzitutto ripensare i nostri spazi ‘tradizionalmente’ culturali, uscendo dalla logica che li ha confinati nelle maglie di una cartografia urbanistica dell’età moderna. Un contributo italiano alla cultura intangibile, dovrebbe proprio partire da luoghi come i musei, perché, come ci ricorda Maria Chiara Ciaccheri ‘Il museo, correttamente interrogato, può ambire a diventare metafora di molti altri sistemi di comunicazione e inclusione’. Musei non solo come meta per appoggiare lo sguardo, ma come luoghi che, dal contatto fisico, diventino luoghi di produzione e di riproduzione sul territorio (e qui noi italiani, per dare il nostro contributo, dovremmo uscire dalla logica del museo come concentrazione di identità imposte, ma come luogo di rielaborazione per narrazioni e riconnessioni nelle mille stratigrafie, materiali ed immateriali, che imbevono il nostro territorio).
Con la stessa cura, attraverso un sano ‘conflitto’ con le mura imposte, dovremmo riaccendere luoghi della cultura come le biblioteche, come di recente ci ha di nuovo ricordato Antonella Agnoli, andando oltre 'gli assetti attuali…inadatti al mondo in cui viviamo’. E aggiungo: e perché non anche le scuole, uscendo dalla logica che esse siano solo luogo ad ascendere verso la formazione (un percorso finalizzato ad un diploma), dove alla costruzione di un sapere corrisponda il riconoscimento di un apprendimento che già in giovane età si trasforma in ‘condivisione’ culturale, da spendere all’interno della comunità. Un bene che esca dai corridoi che le materie ci impongono, per diventare materia plasmabile e plasmante, secondo anche un concetto diverso di mobilità e relazione sociale. Musei e scuole (e biblioteche) sono luoghi che se rimossi dalle vecchie mappe della modernità entro le quali erano state confinati, possono aprirsi a modalità che sconvolgano i percorsi prestabiliti, in una nuova co-prudizione che innervi a attraversi lo spazio intorno, rimuovendo le pareti di percorsi stabiliti.
Dobbiamo ripensarci, profondamente, proprio perché se, dal nostro punto di vista di persone della ‘cultura’ rimaniamo costretti in quelle mura patriarcali dello Stao moderno in crisi, non siamo in grado poi di scardinare e generare quegli spazi dinamici essenziali per un’innovazione sociale che vada oltre la retorica della moda momentanea (come ci ricorda Maria Dodaro).
L’avvio di questa consultazione deve saper andar oltre sé stesso nel suo essere ‘position paper’, per posizionarsi, attraverso una sana conflittualità, oltre le stanche e quindi ormai finte, stanze del ‘patrimonio’: ma rompere quella staticità può realizzarsi solo attraverso una radicale discussione del modello economico, costruito su di un nuovo concetto di welfare e senso di cittadinanza. Il nostro abitare i luoghi deve passare per una ricerca di nuovi strumenti economici non più sentiti come sussidiari (chiusi in quegli ambiti tradizionalmente culturali), ma cruciali per una costruzione di senso, del noi come comunità.
Per rimanere in quell’ambito in teoria nostro, i vari storytelling, audience development/engagement, imprese culturali e creative, gamification, ecc. (parole che nutrono i nostri percorsi) devono emergere per andare oltre quelle cartografie, per andare oltre il vecchio recinto della cultura e nutrire consapevolmente il nuovo paradigma che rappresentiamo. Senza questa consapevolezza e ambizione, rimarremo figli ebeti dei patrimoni, materiali ed immateriali, nella loro schizofrenica divisione.
Un cambiamento che dalle città, luoghi pensanti per eccellenza (anche per la prepotenza del numero di persone che le abitano e le infrastrutture che le servono), nutra le città stesse ma anche quei paesaggi/paesi che segnano i limiti del nostro sguardo.
Il caso del tragico terremoto che ha appena colpito il centro Italia ci deve servire da terreno di riflessione: l’immobilità in cui versiamo, al di là delle responsabilità che abbiamo nei piani antisismici, ci viene ricordata purtroppo da questi eventi fuori dal controllo umano. Dall’Irpinia ad Amatrice, passando per l’Aquila, il diktat immediato è sempre: ricostruire (e poi spesso il silenzio o il distacco). Ingegneri, architetti, pianificatori all’opera per ristabilire la condizione pre-terremoto, senza mai domandarsi, in questi dibattiti, se quella condizione non fosse già stata profondamente minata da altri terremoti, quelli causati dalle dinamiche del vivere umano. L’Appennino (quella nostra spina dorsale peraltro sempre vittima dai terremoti), ma così anche le regioni delle vallate alpine, sono in via d’abbandono: paesi sempre più spopolati perché privi di quelle economie che li avevano resi insediamenti. O accettiamo la loro fine (e lo dico da archeologo, abituato a scavare e a descrivere luoghi abbandonati), o, se per noi rappresentano ancora una categoria vitale (se veramente crediamo che essi siano ‘patrimoni’ culturali), capiamo come poter contribuire ad una loro rinascita, rifuggendo modelli di ripopolazione basati su migranti e/o turisti (come ultimamente ha indicato il Mibact). Più che solo ricostruire i paesi, dobbiamo noi capire come affiancarci agli ingegneri ed architetti per non replicare un modello morto, ma nutrirlo di nuove dinamiche, in primis economiche, che diano un valore nuovo a chi li abita o sarà invogliato ad abitarli. Non è questa la vera sfida culturale (che vada oltre il semplice recupero del ‘bene culturale’) nella quale dovremmo essere coinvolti?
Assemblare i patrimoni, non è più sufficiente: affidiamoci invece alla cura (ma anche al sano conflitto insito nella convivenza di alterità) di nuovi ‘matrimoni’.
Nei prossimi giorni ci ‘cureremo’ a Matera inventando nuove parole e di conseguenza nuovi sensi per i luoghi, dove tutti saranno chiamati a inventarsi una parola per una piattaforma interconnettiva, giocando sul concetto di (U)topia. Partecipate…
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