Le 4 C della cultura che ci serve: critica, cooperazione, conservazione, cucina
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Rubrica:
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di:
Paolo Castelnovi
Nella cultura personale la sequenza di critica, cooperazione, conservazione è naturale. Per cogliere un frutto sinergico di queste fasi della cultura occorre lavorare insieme, come in una cucina.
Il 68 mi ha colto maturo. Mi avevano maturato l’anno prima, con un interrogatorio di tre ore su nove materie complesse: un rito di iniziazione alla borghesia italiana tipo l’uomo chiamato cavallo appeso per i Sioux. La nostra generazione era stata maturata da professori maturi che si erano laureati e avevano insegnato negli anni del fascismo, e avevano trovato il modo di continuare la loro missione educatrice nell’Italia repubblicana.
Quell’armatura culturale straordinaria e indimenticabile ci consentì di affrontare senza esitazione il pasticcio sociopolitico in cui ci avevano cacciato le contraddizioni del dopoguerra. L’abilità ad apprendere consentiva di non spaurirsi tenendo insieme Adorno e i Grundrisse marxiani con gli ormoni che urlavano nella mutanda, di leggere (tutta!) la Ricerca del tempo perduto su una spiaggia, di amarsi andando a vedere i film di Petri e di Bellocchio.
Fu proprio quella formazione culturale, con quell’ingombrante impronta ancora fascista, a spingerci a fare ciò che andava fatto: la critica. Critica di uno stato giovane e forte, progettato con uno sforzo potente dalla generazione dei liberatori, che vent’anni dopo la Costituzione era ancora la classe dirigente ma faticava ad applicarla. Era una critica disordinata e inconcludente, facilmente tenuta ai margini delle scelte sociopolitiche maggiori, ma centrata e incisiva sul piano culturale, della struttura del pensiero comune e dei costumi. Quel pensiero e quei costumi che la borghesia poco aveva modificato negli ultimi 50 anni: l’ideologia della famiglia, il ruolo della donna, l’ascensore socioculturale, il classismo nei comportamenti.
Dieci anni dopo e per trent’anni ancora la cultura, addestrata nelle mille assemblee e nell’ascolto appassionato dei ragionamenti di tutti, ci ha dato gli strumenti per la ricerca collettiva, quel lavorare insieme sui temi che sembravano importanti. Ci sembrava (confusamente) di applicare quel che ci aveva colpito dei racconti della leva dei nostri genitori, dei brevi anni da partigiani o da ricostruttori che li avevano impegnati al vivo, in strani e appassionati aggregati di volontariato, prima di farsi travolgere del privato e dal quotidiano. Di nuovo è stata la cultura, maturata sugli studi e addestrata dalla critica, a fornirci criterio e metodo per lavorare insieme. Per 40 anni abbiamo cercato e spesso trovato compagni di strada per il bene comune, Abbiamo fatto i nostri mestieri di servizio per la società, dove la cultura ci ha aiutato a rimanere per quanto possibile senza pregiudizi e senza rancori, a far politica nel nostro lavoro, invisibili ai partiti ma, forse proprio per questo, con un ordine dei valori indiscutibile.
Ora quel che è fatto è fatto, e la nostra cultura è ormai impregnata da quel che abbiamo fatto. Ci sembra di averlo fatto al meglio. Perciò ci insulta il pensiero di buttarlo via. Subito reagiamo: buttare in nome di che cosa?
E’ vero però che in quel lavoro socioculturale abbiamo allevato la generazione che oggi critica: sono i nostri figli ad essere a disagio, e siamo noi ad avergli fornito gli strumenti culturali per superarci.
Guarda, non lo dico per quello che ho fatto io, ma questo che siamo è il prodotto di migliaia di persone colte, che ci hanno messo l’anima… Son progetti lunghi, che danno frutti dopo decine d’anni… Non è che per qualche centinaio di corrotti, per lo più cialtroni senza cultura, puoi buttare il lavoro di una generazione intera…
No, non mi puoi dire che è come nel ’68, come noi che contestavamo i nostri padri partigiani e rifondatori. Non c’è paragone: questi sono senza cultura… non hanno idea… e poi sanno solo criticare…voglio vederli adesso, con tutti i problemi europei e mondiali che ci sono…
Guarda…quando hai tempo qualche ora ti spiego perché le tue idee non sono realistiche… vedi su questo abbiamo già provato nel ’70 ma non ha funzionato… e su quello avresti dovuto vedere: ci abbiamo messo due anni, avevamo coinvolto duemila persone, ma al momento di fare ne erano rimaste venti… No… non è che non ci credo perché non ci sono riuscito, è che culturalmente è debole: la gente non ti seguirebbe…
No, non sono diventato conservatore…e poi: perché no…se le cose fatte sono buone perché non conservarle? Non dico di tenerle come sono, ma con qualche aggiustamento… i difetti ci sono ma si possono rimediare…
Hai ragione con le tue idee, ma non puoi prescindere dalle condizioni culturali…cinquant’anni fa era giusto criticare, poi ho lavorato con gli altri per superare ciò che criticavo, e ora mi pare giusto conservare ciò che di buono ha prodotto il nostro lavoro: è una cultura che non va persa, anche se tu la critichi…
Ma certo, non è che tutto quello che viene proposto di nuovo sia da buttare via, ma così è senza cultura: non ci hanno lavorato, sono invenzioni che non funzioneranno… rischiamo di buttare via quel poco che abbiamo per degli esperimenti infondati…
Insomma: se oggi è naturale che la generazione del 68 sia conservatrice, è importante riconoscere i meriti di ciascuna delle fasi culturali che hanno distinto quelle biografie. Non sono mutati i valori di riferimento, è mutata la posizione tra gli attori, in un sistema di eterni ritorni tra critica, cooperazione, conservazione.
Come nella doppia spirale del DNA, ogni mezzo giro i critici, spinti dai cooperatori, si trovano di fronte i conservatori (che mezzo giro prima erano cooperatori e un giro prima erano critici). Mezzo giro dopo i critici diventano cooperatori che, tra l’altro, formano i critici di domani.
Ma come nel DNA, l’energia vitale si sprigiona nelle relazioni tra le due semispirali che si confrontano: il nostro patrimonio informativo non sta nelle sostanze che formano le spirali, ma nelle relazioni sempre diverse tra quelle sostanze sempre uguali. Così tra critica, cooperazione, conservazione: ciascuna azione, in ciascuna fase non sortisce alcun effetto culturale di lungo periodo. L’effetto deriva dal complesso delle relazioni tra tutte le parti, purché siano organizzate.
Se la critica (o la cooperazione, o la conservazione) valeva nel 68 può valere oggi, mutatae mutandis, ma certo bisogna trovare una sede dove innescare il confronto tra loro, un brodo di coltura dove fare crescere i filamenti che collegano le parti.
Non si tratta di un brodo di coltura, ma di cultura semmai. Infatti è ormai evidente che è la sede classica del confronto, fin dai Greci: il dibattito politico. In quel campo si sono avvelenati i pozzi: la competizione val più della collaborazione, le parole a far danno pesano più di quelle a far bene. Non c’è spazio per i progetti lunghi, quelli che dan frutti dopo e distante dalla pianta che hai curato, quelli che non puoi dire: son miei prodotti.
Per i progetti lunghi, quelli che contano, occorre trovare un campo dove la cultura dell’uno rispetti quella dell’altro: la critichi, ne tenga pezzi, la rimpolpi senza firmare ogni parte come propria ma la cresca come bene comune.
Troviamo un luogo di cultura adatto a questo lavoro, anonimo ed essenziale. Una cucina.
Già, perché ci vuole metodo e sapienza di cuoca. Non i cuochi narcisi che riempiono le tv, ma una bella signora terrona, che sappia arrangiare cinquestelle e democratici, critici e conservatori con grembiali e attenzione e gli insegni, a mestolate, che occorrono tre cose. Occorre ricominciare da capo con gli acquisti, per raccogliere ingredienti sani direttamente dal territorio, senza fidarsi dei venditori abituali. Occorre una disciplina da gruppo di ricerca per far mettere le mani ad altri in impasti che vorremmo sempre far solo noi. Occorre un continuo e diffuso esercizio di onestà intellettuale a riconoscere i buoni piatti sin dall’assaggio, e proseguire solo con quelli.
Tre passaggi. Contemporaneamente.
E una cuoca che sa cosa fare per dar da mangiare a tutti. Senza chiedere applausi dalla sala.
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