La cultura che muore
Dopo pochi giorni che ero al Ministero sono andata a Villa Adriana, a Tivoli, e ho visto che alla biglietteria non si poteva pagare con la carta di credito (sconcerto degli stranieri), il sito chiudeva alle 18 e non era possibile tenerlo aperto più a lungo, l’autobus che collega Roma con la località arrivava a 1,5 km e mezzo di distanza il sito, intorno a Villa Adriana stava nascendo una discarica e una speculazione gravissima che entra nella buffer zone – linea di protezione di un sito UNESCO – che sarebbe una pugnalata al cuore di uno dei luoghi più belli d’Italia.
Se non ci si rivolge a un cambiamento radicale della politica di valorizzazione dei nostri beni culturali, tutto quello che c’è scritto in tutti i programmi dei partiti, cioè che i beni culturali possono essere un fenomeno importante di sviluppo (soprattutto per quelle regioni che hanno perso la vocazione produttiva), risulterà impossibile. Dobbiamo cambiare strategia a tutto tondo. Faccio una premessa per me doverosa.
Il paesaggio: non vale la pena venire a vedere un Paese nel quale il paesaggio è distrutto. Potremmo salvare tutti i beni culturali possibili, ma la scelta è strategicamente sbagliata. Le nostre sovrintendenze non hanno le macchine per andare in giro, non ci sono i funzionari sufficienti per presidiare il territorio e vengono spesso attaccate perché cercano di fermare qualcosa; ma non si considera mai con che mezzi sono ridotti ad operare per tutelare un bene comune come il paesaggio.
Prima cosa: restituiamo al nostro ministero la possibilità di svolgere la missione di tutela del paesaggio che è il presupposto per qualunque valorizzazione.
Seconda cosa: è inevitabile che un ministero che ha (per la manutenzione ordinaria) cento milioni di euro a bilancio non abbia i mezzi per poter operare e, quindi, ci si trova a dover intervenire come manutenzione straordinaria che ha costi molto più importanti.
Di fronte a questa situazione in cui lavorano oltre 19500 persone che si devono occupare di oltre 400 musei statali, 102 archivi, del contenuto delle chiese, più siti archeologici, come possiamo pensare che lo Stato affronti da solo tutto questo? Come possiamo pensare che ne faccia una possibilità di sviluppo per l’intero paese?
Che cosa fare? Quello che è successo in altri paesi, in maniera meno ideologica. A Londra i musei sono gratuiti, ma nessuno si è scandalizzato quando la famiglia Sainsbury ha regalato una nuova ala della National Gallery (dove c’è la pittura italiana magnificamente esposta). Nessuno ha detto che si mercifica l’arte o che si vende ai privati. La National Gallery è un museo gratuito. Se c’è un paese che dell’arte e della cultura ha un concetto alto (bene accessibile a tutti) è proprio il mondo anglosassone. Ma cosa hanno fatto quando sono mancate le risorse, nonostante avessero un patrimonio nettamente inferiore rispetto alle dimensioni del nostro? Hanno formato una rete che è fatta da privati, terzo settore, stato e enti locali (questi ultimi svolgono il 40% dell’attività di tutela e valorizzazione culturale sul territorio e che sono partner strettissimo dell’istituzione statale, con la quale non si può non impostare un lavoro di condivisione delle linee strategiche per lo sviluppo). Noi no! Vogliamo ripetere solo la parola STATO, rendendo così difficile la gestione di una macchina ormai ingestibile dal punto di vista burocratico e amministrativo. Il giorno dopo della mia visita a Tivoli, quando ho convocato alcuni funzionari, ho posto la domanda: arriva un signore cinese e ci vuole dare due milioni di euro per la Domus Aurea, non vuole far niente, non vuole vendere un prodotto, non vuole il suo nome. Vuole solo sapere se entro un anno e mezzo possono cominciare i lavori e se la sua donazione può finire quel restauro. La risposta: Ma lei scherza!
È colpa dell’impalcatura amministrativa e normativa dentro la quale si muove l’amministrazione, che non agevola la ricerca di una pluralità di soggetti che affianchi lo Stato per salvare il nostro patrimonio culturale. Tra due anni inizieremo a chiudere i musei.
Ercolano è un felice esempio di buon rapporto tra pubblico e privato, dove è entrato un mecenate americano, Packard che si accorge che su 65 custodi ne abbiamo 35 e molte delle Domus sono chiuse. La situazione del nostro patrimonio culturale è drammatica. Dobbiamo allargarci a questo rapporto con gli enti locali, con il terzo settore, con i privati, senza barriere ideologiche e tenendo le regole ben chiare.
Al Ministero ci sono delle competenze straordinarie, ma lo Stato non è in grado di fare questo salto che porti a valorizzare il patrimonio, dopo anni in cui il bilancio del Ministero è stato tagliato del 35%, dopo che l’età media delle sovrintendenze supera i 45 anni, dopo che non si assumono competenze fondamentali, dopo che la parola marketing non esiste. Siamo indietro.
Nel Codice Civile non abbiamo una norma che definisca cos’è il Terzo Settore. Quando ho parlato di fare un contratto di lavoro per il Terzo Settore che fosse flessibile e permettesse ai giovani di entrare a lavorare, mi sono sentita dire che non ci sono lavoratori di serie A e di serie B. Ma come è possibile pensare che il Terzo settore sopperisca allo Stato, se non viene considerato la terza gamba su cui poggia la collettività.
Solo una cosa per chiudere: questo paese ha avuto 62 governi dal dopoguerra, la Germania 24, l’Inghilterra 22. È impossibile fare una programmazione che si ponga una domanda: cosa voglio da qui a 5 anni per una città? Qual’è la visione di coloro che hanno la responsabilità di portare un governo verso quel progetto? Dobbiamo pensare, dire e sostenere che bisogna cambiare delle regole fondamentali, che diano a questo Paese non solo la possibilità di una governabilità, ma la possibilità di ridisegnare il senso della valorizzazione dei beni culturali in maniera molto più aperta, condivisa e finalizzata a creare possibilità di sviluppo e occupazione. I beni culturali sono delle risorse fondamentali e la loro valorizzazione è un diritto al quale tutti i cittadini di un paese civile devono aspirare, ma perché si vada in questa direzione bisogna che lo Stato cambi passo e mentalità, aprendosi e considerandosi uno dei partner per il rilancio di questo paese.
Intervento a «La cultura che muore», Umbria Libri- Perugia 10, novembre 2013