Il «museo con vista» dà Ragione allo sguardo
Venerdì 11 aprile il Palazzo della Ragione, ex tribunale cittadino, riapre quale sede della nuova Galleria d’arte moderna «Achille Forti». Il nuovo allestimento, curato dal direttore artistico Luca Massimo Barbero, occupa le quattro sale (Sala delle Colonne, Sala quadrata, Sala Picta o della Giustizia e Sala d’Oriente) del primo piano nobile del palazzo e riunisce 150 opere (di cui 40 appositamente restaurate) appartenenti a tre collezioni (la civica «Achille Forti» e quelle di Fondazioni Domus e Cariverona) per illustrare un secolo di storia (dal 1840 al 1940).
La riapertura della Galleria è anche l’occasione per rendere accessibili altri spazi di Palazzo della Ragione finora preclusi come la Cappella dei Notai, che presenta un ricco ciclo decorativo realizzato tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, o valorizzarne altri, dalla monumentale Scala della Ragione alla Torre dei Lamberti.
Luca Massimo Barbero descrive il nuovo percorso espositivo.
Perché ha scelto questo arco cronologico?
La scelta ha una forte valenza simbolica. L’idea è quella di portare lo spettatore in 100 anni stravolgenti e pregnanti anche dal punto di vista storico-artistico e politico, traghettarlo in un palazzo della città in un viaggio con le immagini attraverso il tempo. Intorno al 1840 l’Italia conosce importanti sconvolgimenti: le Pasque veronesi prima, il grande Risorgimento poi, in un panorama storico-artistico non più neoclassico e non ancora romantico. Della Verona austriaca emblematica è la presenza di alcuni quadri e sculture. Il 1940 si può considerare la chiusura della prima parte del «secolo breve», è una data chiara rispetto a quello che sarà il dramma maturo della guerra mondiale. Il percorso inizia con tre opere fondamentali che corrispondono al primo allestimento della collezione Forti: «La nutrice» di Von Piloty, «Meditazione» (1851) di Hayez, che della raccolta è il cuore, e «Pia de’ Tolomei condotta in Maremma» (1853) di Pompeo Molmenti. Ho voluto partire idealmente da questa grande donazione, restituirla iniziando da tre capisaldi che sono peraltro documentati da una foto del 1939. È Verona che si ritrova.
All’interno di questa narrazione il visitatore com’è aiutato a comprendere il lavoro curatoriale?
Direi che è molto guidato. Non si tratta però di un allestimento didattico bensì pensato in grande libertà secondo il principio del «dimenticare la storia dell’arte a memoria» di modo che tutto sia sotteso, chiaro e scientifico ma allo stesso tempo non sia «d’obbligo». Il visitatore incontra grandi temi in ogni ambiente. Il fine è creare un percorso lieve, intelligente ma ineccepibile, dedicato non tanto agli specialisti quanto a coloro che vogliano ri-conoscere Verona e gli autori che l’hanno popolata. Basti pensare che iniziamo con le immagini di Lotze, il fotografo dell’Ottocento veronese per eccellenza. Penso anche alla scultura di Dante di Ugo Zannoni (che trova rispondenza con il monumento dedicato al poeta, opera dello stesso artista in piazza dei Signori, Ndr). Parlo spesso di «galleria con vista» perché il visitatore può vedere una Verona dipinta, poi salire sulla Torre dei Lamberti e osservarla dal vero. O viceversa. Penso che prima della storia dell’arte venga l’amore dello sguardo.
Dovendo citare alcune fra le opere magistrali presenti in mostra, quali sceglierebbe per ogni sala?
È indubbio il dover citare l’Hayez che comprende anche la chiave di tutto l’allestimento. È un’opera commissionata per celebrare l’Italia umiliata e occupata. Il dipinto nasconde le date delle Cinque giornate di Milano, date che pare siano state apposte in casa del collezionista, in segreto, affinché gli austriaci non le vedessero. Ogni lavoro, in questo percorso, nasconde anche una propria biografia che noi raccontiamo. Nella seconda sala il «S’avanza» di Morbelli è uno dei capolavori del tardo Ottocento. La sala è dedicata allo stemperarsi ottocentesco della luce. La terza grande sala meriterebbe almeno un paio di citazioni. Sceglierei il «Ritratto di Teresa Madinelli» di Felice Casorati anche per una passione che nutro per quella casa, quella donna, quel salotto, in relazione al giovane pittore il quale arriva e vi trova tutte le grandi effervescenze della nuova Secessione. Dico sempre che la Secessione tra Monaco e Vienna filtrò dal Nord e per raggiungere Venezia passò anche da Verona. La quarta sala contiene molte originalità. Personalmente trovo importante la rarità e il nuovo allestimento, con uno specchio che ci restituisce un’immagine addirittura «liquida» con «Donna che nuota sott’acqua» di Arturo Martini. Quella scultura, dopo essere stata vista alla Biennale del 1942, è stata comprata e chiusa gelosamente in una casa privata sino a quando la Fondazione Cariverona la acquistò, non è mai stata prestata per alcuna mostra perché era letteralmente murata. È un pezzo fondamentale per la cultura plastica italiana. È la testimonianza del grande passaggio fra la scultura aulica martiniana novecentesca e il sentire della crisi tanto che l’artista ne martella la testa per renderla acefala, con gesto michelangiolesco.
Lei ha parlato di un museo permanente della città per la città. In futuro come pensa di strutturare il percorso? Ci sarà una parte che non muta e altre di carattere temporaneo che vi ruoteranno attorno?
Questa è la prima tappa. Lo spazio espositivo oggi è abbastanza mobile e si presterebbe anche a dialoghi molto interessanti. Toccherà poi alla città deciderne la veste da un punto di vista operativo. La galleria ha piccole parti monografiche. Penso ai Gino Rossi, ai Cagnaccio di San Pietro, ai De Pisis... L’idea può essere quella di continuare a «punteggiare» lo spazio facendo incontrare i lavori in un doppio dialogo. Potrebbe essere anche molto utile dal punto di vista scientifico per restituire alla collettività un capitale storico artistico.
Il reportage completo è pubblicato nel numero di «Vernissage» allegato a «Il Giornale dell'Arte» di aprile 2014